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Destiny, Assassin's Creed fan-fiction

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\\ Kanda //
view post Posted on 9/3/2013, 15:58 by: \\ Kanda //     +1   -1




Eccomi con il terzo capitolo!
Ammetto che contavo di "entrare in azione" già da questo punto, ma lo svolgimento psicologico e non della situazione si sta aggrovigliando più del previsto, quindi...keep calm and wait, please XD
Detto questo non ho molto altro da aggiungere se non che spero vivamente che vi piaccia =)
Attendo con ansia i vostri commenti! ^_^
(PS: Dirò solo una cosa....ormai è la fiera della gente che non si fa i fatti proprio in questa fic XD)

Sequence III


Discoveries



Seduta sul comodo davanzale della finestra della mia camera, lasciavo vagare lo sguardo sui prati assolati del campus. Diversi studenti avevano deciso di approfittare del tepore primaverile ed occupavano quelle verdi distese, studiando, chiacchierando, qualcuno addirittura si crogiolava al sole, sperando nella prima debole tintarella.
Avrei voluto anch’io bearmi della giornata, ma la mia mente era troppo affollata di pensieri. Non riuscivo a levarmi dalla testa l’incontro con quell’uomo.
Tutto in lui mi aveva urlato prepotentemente di non dargli ascolto, tanto da farmi cambiare i miei collaudati piani giornalieri. In più, quella croce appuntata al petto continuava a vorticarmi davanti agli occhi.
Mi era stranamente familiare e non perchè l’avessi osservata miriadi di volte nei libri di storia medievale, no...qualcosa, dentro di me, mi legava a quel simbolo in modo misterioso.
Strano pensare come solo pochi giorni prima la mia esistenza fosse stata tranquilla. Deprimentemente monotona, certo, ma perlomeno tranquilla!
Ora mi ritrovavo, nel giro di due giorni, a dover fare i conti con due questioni: l’irritante comportamento di quell’idiota di un barista e l’inquietante comparsa del “crociato”.
Sospirai, volgendo nuovamente gli occhi al prato.
Vagando sui vari studenti scorsi Catherine, poco distante dall’edificio. Strano.
Solitamente passava le giornate del finesettimana immersa nelle vie dello shopping, vederla nel campus in una giornata come quella non era certo la normalità. Continuava a fissare l’orologio e camminava nervosamente avanti e indietro, torturando il prato.
Probabilmente uno dei suoi innumerevoli “cortigiani” doveva averle dato buca.
Ridacchiai.
Ogni tanto le faceva bene beccarsi una batosta in quel campo, che diamine.
Scesi dalla mia postazione di vedetta e mi sdraiai sul letto, accendendo il computer portatile. I miei genitori me l’avevano regalato poco prima della mia partenza, con la promessa di mandar loro un’esauriente mail ogni giorno. Neanche fossi andata in Congo...
Avevo accettato di buon grado, comunque, alla fine non mi costava nulla, così cominciai a scrivere la mia lettera giornaliera, più per distrarmi che per reale necessità di raccontare la mia monotona vita americana.
Fu un vero papiro, ma almeno i miei non si sarebbero lamentati della mia tendenza ad essere telegrafica.
Finita anche quell’incombenza, la noia ricominciò ad impadronirsi di me. Maledizione, non avevo nulla da fare! Ero abituata a trascorrere i miei pomeriggi liberi al bar, così, al momento, mi ritrovavo ad essere disoccupata.
Di studiare non se ne parlava nemmeno. Passavo l’intera settimana sui libri e tra gli appunti, figurarsi se avevo intenzione di tartassare i miei neuroni anche nel weekend. No, decisamente no.
Sbuffando sonoramente, tornai alla finestra...e mi si bloccò il cuore in gola.
Lui.
L’uomo che mi aveva fermata nel parco era proprio nel prato di fronte al dormitorio e, cosa più importante, parlava amabilmente con la mia compagna di stanza.
Scartai subito l’ipotesi che si potesse trattare di una sua nuova fiamma. Catherine teneva un atteggiamento discutibile nei confronti degli uomini, ma su una cosa era sempre stata coerente: non era mai andata con qualcuno più vecchio di lei di più di cinque anni e quello il limite lo superava abbondantemente.
Ero inquieta.
Che avesse scoperto dove abitassi e stesse prendendo informazioni?
Dannazione, Catherine sapeva benissimo dove passavo il tempo tutti i finesettimana, avrebbe potuto rivelarglielo senza problemi. L’astio che si era creato tra noi due, inoltre, le avrebbe dato semplicemente un incentivo in più.
Avrei dato qualsiasi cosa per scoprire cosa si stessero dicendo.
Passai in quello stato di angoscia e preoccupazione diversi minuti, finché, finalmente, l’uomo salutò Catherine, dirigendosi, verosimilmente, verso l’uscita del campus. La mia coinquilina stava rientrando. Avrei abbandonato ogni proposito di ignorarla e le avrei chiesto spiegazioni. Dovevo sapere chi era quell’uomo.
Mi sedetti nuovamente sul davanzale, aspettando l’arrivo di Catherine e, non appena entrò in stanza, partii all’attacco.
“Niente shopping oggi?”
“Scusa, e a te che ti frega?”

Dolce e delicata, come sempre.
“Proprio niente. Era solo un’osservazione.”
Ma sapevo che non sarebbe finita lì. Quanto io ero abile nell’ignorare le parole altrui, Catherine non si sarebbe data per vinta fintantoché non avesse avuto l’ultima parola. Se avessi continuato a stuzzicarla, mi avrebbe detto inconsciamente tutto quanto volevo sapere.
“E comunque potrei farti la stessa domanda. Che cavolo ci fai qui?”
“Ti rigiro la tua risposta?”

Si stava alterando.
“Dio, Cris! Mi dai su nervi! Adesso non sono nemmeno padrona di incontrare mio padre?!”
Fui avvolta dal gelo.
Suo padre?
Questo era un problema, e neanche piccolo.
Cercai di non far notare il mio sgomento e mi alzai, diretta alla porta.
“No, no, fai pure. Vado a farmi un giro.”
“Ma vattene dove ti pare, basta che non mi rompi i c..!”

Uscii sbattendo la porta, prima che le soavi parole da camionista della mia compagna mi arrivassero all’orecchio.
Dovevo pensare, riflettere.
Il fatto che quello fosse il padre di Catherine sarebbe anche potuta essere una coincidenza, così come l’incontro avuto con lui al parco.
Magari fosse stato così...c’era qualcos’altro sotto, lo sentivo, me ne rendevo conto in modo vivido.
Quell’uomo cercava Desmond e doveva essere venuto a sapere che sua figlia viveva nella stessa stanza con la ragazza che tutti i benedetti finesettimana andava al bar dove lui lavorava. Da qui a fare due più due, chiedendo le opportune informazioni alla figlia, il passo era breve.
Dopotutto io e Catherine, nostro malgrado, eravamo perfettamente al corrente, vivendo negli stessi metri quadri, dei rispettivi impegni ed occupazioni.
Camminai a passo spedito attraverso i corridoi, pensando e rimuginando sull’inquietante scoperta. Dovevo avvertire Desmond.
A passo da marciatore olimpico e facendo una strada decisamente più lunga e meno agevole del normale, per timore d’essere seguita, mi diressi al Meeting Corner. Certo, una telefonata sarebbe stata decisamente più veloce, ma quando si è furbi come la sottoscritta ci si dimentica di chiedere il numero di telefono alle persone che si conoscono ormai da mesi. Desmond comunque non era stato da meno.
Quando entrai nel locale, tuttavia, la folla era davvero sostanziosa e Desmond era parecchio indaffarato. Non era il momento adatto per parlargli, avrebbe ascoltato, ad essere ottimisti, un quarto delle parole che gli avrei rivolto, così gli feci un cenno di saluto e mi sedetti ad uno dei tavoli, aspettando.
Aspettai mezza giornata.
Troppo, decisamente troppo.
Maledissi il caldo e la torma di turisti, studenti e famigliole da esso evocate nel bar. Avevo passato l’intero pomeriggio e tutta la sera seduta a quel dannato tavolo, senza avere la possibilità di avvicinarmi a Desmond per più di tre secondi.
Nel frattempo avevo cenato, placando, almeno, l’angoscia del mio stomaco. Era già un passo avanti.
La serata si protraeva con lentezza esasperante e le mie possibilità di parlare con l’impegnatissimo barista erano sempre più esigue, poi, inaspettatamente, fu lui a venire da me. Si sedette velocemente nel posto rimasto vuoto, di fronte a me, con un’espressione confusa e vagamente preoccupata.
“Mi spieghi cosa ci fai ancora qui? Non ti sei mossa da questo tavolo per ore. Che succede?”
Sembrava seriamente preoccupato per me, il che fece svolazzare allegramente le farfalle impazzite che stavano popolando il mio stomaco. Con tenerezza, posò una mano sul mio viso, accarezzandomi lo zigomo col pollice. Il suo tocco era caldo e delicato, sarei potuta rimanere lì per ore, giorni...ma non potevo!
Dannazione, dovevo riprendere un sano controllo sulla mia persona.
Con un movimento che apparve, ne fui sicura, fin troppo controllato, allontanai la sua mano. Ah, quanto mi costava quel gesto, ma evitai di pensarci.
“Desmond, ti devo parlare di una cosa...è molto importante.”
Ero preoccupata, terribilmente, e parve accorgersene.
“Ok. Aspetta qui fino alla fine del turno, poi ne parliamo.” E fece per andarsene, alzandosi dalla sedia, poi però, prima di voltarmi le spalle,tornò sui suoi passi.
“Non è che ha qualcosa a che fare con un uomo sulla cinquantina, alto, con un completo grigio...”
“...e una croce sul risvolto della giacca.”

Impallidii, mentre il mio cuore cominciava a pompare sangue un po’ troppo velocemente.
Era già stato lì.
“E’ venuto qui oggi, ha chiesto di me alla proprietaria, mentre ero in pausa pranzo...Cris, che cosa c’entra quell’uomo con te?”
“Ti ricordi stamattina, nel parco?”
Annuì, lo sguardo concentrato che non riusciva del tutto a mascherare l’ansia che stava impadronendosi di lui. Per qualche motivo, sembrava controllato, però, come se si fosse trovato già altre volte in situazioni simili e sapesse esattamente come comportarsi. Parte del suo sguardo rivelava quanto fosse...combattuto.
“Dopo che te ne sei andato, mi ha fermata, chiedendomi di te. Voleva sapere se ti conoscessi...io, non so perchè, ma non riuscivo a sentirmi tranquilla. Ho negato di conoscerti, ma non credo se la sia bevuta.”
“Continua.” Mi disse, incalzandomi.
“Oggi pomeriggio sono venuta a sapere che è il padre della mia coinquilina, in università. Io non ho idea di cosa diamine voglia quell’uomo da te, ma di una cosa sono certa. Queste non sono coincidenze, Desmond, lui sapeva che sua figlia vive a stretto contatto con me e conosceva i miei movimenti, per questo è andato sul sicuro fermandomi e chiedendomi informazioni. Solo non riesco a capire…perché.”
Ero in preda all’angoscia, sentivo di essere stata tirata in mezzo in un affare che non solo non mi riguardava, ma era anche decisamente più grande di me, qualcosa che non ero affatto in grado di gestire.
“Maledizione!”
Nervosamente iniziò a spostare il peso da una gamba all’altra, portandosi una mano dietro la nuca, in un gesto di stizza. Sembrava un animale in gabbia.
Cominciò a ragionare velocemente, bisbigliando come se io non fossi presente. Era così preso nei suoi pensieri che probabilmente non mi avrebbe dato ascolto, nemmeno se lo avessi preso a pugni per farmi notare.
“Dannazione, ero stato attento, nessuno mi aveva seguito, ero irrintracciabile, maledizione. Nessun cellulare, né mail…e poi che diamine possono volere i Templari da me, io non sto più con gli altri da tempo, non avrebbe senso togliermi di mezzo…”
Templari? Il mio cervello faticava ad assorbire la quantità di informazioni, molte delle quali assolutamente senza senso, almeno all’apparenza, che Desmond stava proponendo, come una cascata, irrefrenabili.
E poi…toglierlo di mezzo? Intendeva dire che il padre di Catherine voleva ucciderlo? Ma perché? Desmond era un barista, che motivo si può avere per assassinare un barista? Troppe domande, troppi interrogativi, troppi vicoli ciechi nella mia mente.
Desmond mi aveva sempre nascosto qualcosa della sua vita, me ne rendevo conto solo ora, un elemento che però adesso sembrava assolutamente fondamentale. Mi chiesi perché. Forse perché non ero altro che una conoscente. Persino la parola “amica” non mi sembrava più appropriata per definirmi, vista la mole di informazioni di cui mi aveva tenuta all’oscuro. Ognuno ha diritto di mantenere una parte di segreto relativo alla propria vita, ma questa parte, mi rendevo conto, era davvero troppo estesa.
Non si fidava di me, non l’aveva mai fatto.
O forse, non si fidava proprio di nessuno.
Avevo la netta sensazione che stesse scappando, ma da cosa lo ignoravo.
“Sei stata tu.”
“Cosa?”

Quell’attacco diretto mi riportò alla realtà.
Desmond mi fissava dritta negli occhi, con espressione tradita e lievemente furente. Non lo nego, in quel momento, non so per quale motivo, ebbi un attimo di sana paura.
“Lavori per loro, non è vero? Era tutto programmato, pianificato fin dall’inizio! Fingerti sola, depressa, nuova arrivata nella grande città, solo per accaparrarti la mia fiducia e potermeli mandare addosso. Magari non sei neppure italiana! E io che ci sono cascato come un idiota…”
Questo era davvero troppo.
Tutta la mia vita ormai gravitava attorno ai pomeriggi passati con lui a chiacchierare, alle sere trascorse al bancone in sua compagnia, ascoltando musica, alle settimane vissute solamente in vista del weekend…e mi accusava di averlo usato o, peggio, tradito?!
Reagii d’istinto.
Alzandomi con veemenza dalla sedia, vibrai un sonoro ceffone sulla sua guancia sinistra, che fece voltare alcuni degli avventori più prossimi nella nostra direzione.
Sul suo volto scorsi sorpresa…oltre ad un ben visibile alone rosso.
“Non azzardarti mai più a rivolgerti a me in quel modo, Desmond.”
Ero così furiosa ed offesa, che lacrime di rabbia già minacciavano di far capolino dai miei occhi lucidi.
Esitando, rivolse nuovamente lo sguardo nella mia direzione.
“Io…”
“Tu,”
esordii, interrompendolo, “sei un emerito deficiente se pensi che mi sia mai anche solo potuta venire in mente una cosa del genere.”
Non sostenne il mio sguardo, abbassandolo fino a fissare il pavimento.
Feci un passo verso di lui.
“Guardami negli occhi.”
Attesi che le sue pupille dorate tornassero a tuffarsi nel profondo oceano delle mie.
“E adesso dimmi: ti sembrano gli occhi di chi è in grado di tradire un amico? Lo sai che con lo sguardo non so mentire, per niente.”
Mai parole furono più vere.
Lo vidi esitare, poi sospirò, chiudendo gli occhi e, avvicinandosi a me, mi prese tra le sue braccia, in una stretta calda e rassicurante. Mi lasciai trasportare, nonostante la mia razionalità mi urlasse che, in quella situazione, c’erano questioni più pressanti da risolvere. Appoggiai il viso contro la sua spalla, inebriandomi del suo profumo, mentre con una mano mi teneva dolcemente il capo contro di sé. Avvertivo il suo viso affianco al mio…
Avrei dato ogni cosa, pur di poter fermare il tempo in quell’attimo perfetto.
“Scusami…”
In risposta, mi strinsi ancor di più a lui, circondando con le braccia la sua schiena, in un abbraccio liberatorio che Desmond ricambiò.
“Des, maledizione, il bancone è scoperto!” udii, in un soffio seccato che mi ricordò immediatamente il gatto di una mia vecchia conoscente.
Era la proprietaria, giunta a richiamare Desmond all’ordine.
“Si, subito.” Le rispose, lasciandomi andare, con una lentezza esasperante che non fui in grado di comprendere fino in fondo.
Mi prese per le spalle, fissandomi intensamente, con uno sguardo che non ammetteva repliche.
“Ascoltami bene, non uscire da qui finchè non ho terminato il turno. Ti riaccompagno al campus.”
Ero stranita. Non si era mai posto il problema prima d’ora.
“Guarda che so difendermi da sola, non ho bisogno di una balia.”
Sorrise, divertito dal paragone, per poi tornare decisamente serio, solo un attimo dopo.
“Fammi questo piacere, per favore. Mi sentirò più tranquillo.”
Confusa, annuii, riprendendo il mio posto ed attendendo la chiusura del locale, la quale giunse, coronata da ore di pensieri angosciosi e quesiti senza soluzione apparente, con estrema lentezza.
 
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