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Destiny, Assassin's Creed fan-fiction

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\\ Kanda //
TOPIC_ICON8  view post Posted on 19/2/2013, 19:14     +1   -1




Questa storia è nata di getto due giorni fa. Ero in biblioteca, in università, non avevo nulla da fare e dovevo impiegare in qualche modo sei ore...non so perchè mi sia venuta in mente una cosa del genere, fatto sta che mi sono messa a scriverla.
Ammetto di essere partita con l'idea di scrivere una veloce one-shot, ma, come chi mi segue sa fin troppo bene, non ho il dono della sintesi, quindi eccomi qui con l'ennesima long...ogni tanto mi chiedo se riuscirò mai a finirla tutte...devo!!
Dunque, io ho cominciato a conoscere e giocare ad Assassin's Creed solo a novembre (mannaggia a me), per colpa/merito di un'amica che me l'ha voluto a tutti i costi prestare. Al momento sono solo alla sequenza 5 di Assassin's Creed II perciò, sebbene la trama generale ed i personaggi di base siano quelli della saga, questa storia probabilmente c'entrerà poco con quella originale, ma spero vorrete comunque leggere questo frutto della mia fantasia malata XD Diciamo che è liberamente ispirata ad AC.
L'inizio sarà piuttosto rilassato, ma conto molto presto di entrare nel vivo dell'azione ed onorare questa splendida saga ^_^
Se poi avrete voglia di recensire anche su EFP mi farà piacere, nel caso questo è il link...
Bene, non voglio annoiarvi ancor prima di aver letto, quindi, buona lettura!!!


- Destiny -


Sequence I

Routine



Mi ero trasferita ormai da diversi mesi, i caldi colori dell’autunno avevano lasciato posto al grigiume invernale ed alla sua neve, per poi tramutarsi nei soavi profumi della primavera. Più di sei mesi erano trascorsi da che ero giunta nella grande città, ma ancora faticavo ad ambientarmi.
Avevo lasciato l’Italia, il mio paese d’origine, per raggiungere quella grande metropoli americana, o meglio, la sua prestigiosa università di orientalistica, una tappa quasi obbligata per intraprendere la carriera da me scelta. Un intero oceano mi separava dalla mia famiglia e dai miei amici e non negavo di sentire parecchio la loro mancanza a volte, tra le pareti della mia stanza.
Non avevo avuto, inoltre, molta fortuna nel trasferimento. L’intero campus universitario era progettato in modo che gli studenti non sentissero il bisogno di uscirne, perfettamente attrezzato per ogni evenienza: librerie, biblioteche, bar, ristoranti, cartolerie, persino un piccolo ambulatorio medico per le prime necessità. C’era tutto. Anche gli alloggi, uno dei principali motivi del mio disagio.
Le camere erano doppie, senza eccezioni e malgrado avessi sperato con tutto il cuore di trovare una compagna di stanza simpatica e socievole, che mi aiutasse a superare il distacco da casa, mi ero dovuto amaramente ricredere.
Catherine era la classica ragazza viziata e spocchiosa, abituata ad osservare il mondo dall’alto in basso. Riteneva che chiunque rispetto a lei fosse una nullità, solo per via del lavoro di suo padre che a quanto pareva era uno dei massimi dirigenti di un’importante multinazionale, attiva in moltissimi campi commerciali e non. Mi pareva si chiamasse Abstergo, o qualcosa di simile…dovevo aver letto qualche cartellone pubblicitario in proposito. Il fatto poi che io fossi lì grazie ad una borsa di studio, mentre lei pagava l’intera retta, credo mi rendesse ancora più insopportabile ai suoi occhi. Probabilmente mi riteneva una sorta di infimo parassita succhia soldi…
Passavamo la maggior parte del tempo ad ignorarci deliberatamente, ben consapevoli di non riuscire a sopportarci a vicenda. Inoltre, credo le desse parecchio fastidio il fatto di non riuscire a rendermi la vita impossibile quanto sperava. Diverse volte aveva tentato di attentare alla mia tranquillità, nel sonno o con scherzi idioti al mio rientro in camera, ma, sfortunatamente per lei, avevo sempre avuto il sonno parecchio leggero ed i miei riflessi non mi avevano mai tradita. Mia madre era solita dire che dormivo con un occhio chiuso ed uno aperto, come mio padre del resto, ed aveva ragione.
Bastava un minimo suono perché mi svegliassi e saltassi sul letto. Catherine era riuscita a beccarsi un sonoro diretto sul mento in questo modo…accidentale, s’intende.
Quindi, per evitare di dover sopportare la sua presenza, passavo il mio tempo divisa tra lo studio in biblioteca e la miriade di attività sportive disponibili nel campus. Non ero iscritta a nessuna squadra e nemmeno ne sentivo il bisogno, malgrado qualche allenatore me l’avesse proposto, tutto ciò di cui avevo necessitavo era muovermi e sfogarmi, in quel modo riuscivo ad evitare di pensare. Di solito sceglievo a caso in cosa avrei profuso le mie energie, senza alcuna pianificazione, anche se prediligevo alcune tra le attività meno comuni. Passavo dalla pallacanestro alle arti marziali, dal kendo all’hockey su prato, c’era persino una parete per arrampicate, anche se dovevo ammettere che le poche volte che l’avevo provata mi erano bastate. Cadere da quattro metri non è un’esperienza piacevole…anche se sotto di te c’è un materasso pronto ad attenderti.
Insomma, le mie giornate erano tutte identiche tra loro, in modo decisamente deprimente.
L’unico raggio di sole nella mia grigia settimana era il weekend. Passavo tutto il giorno al parco cittadino, sommersa dai miei libri di studio, con la fedele compagnia del mio blocco da disegno, circondata da famigliole in passeggiata pomeridiana, cani che inseguivano giocosi i propri padroni, gruppi di ragazzi che, come me, si godevano le belle giornate primaverili leggendo un libro o giocando a volley. Studiavo, leggevo, ogni tanto facevo qualche schizzo o venivo invitata a fare due tiri a palla. Pace, ecco cos’era per me il weekend.
Sin dai primi tempi della mia permanenza, l’insostenibile clausura del campus mi aveva oppressa, così avevo subito cercato maniere alternative con cui occupare il mio poco tempo libero. A pranzo e a cena, avevo preso l’abitudine di andare in un piccolo jazz bar, proprio vicino al parco, dall’invitante nome Meeting Corner.
Era un locale contenuto, proprio all’angolo della via principale che dal parco conduceva verso la zona della città occupata dall’immenso campus universitario. L’avevo notato quasi per caso qualche mese prima e da allora era divenuto il mio rifugio fisso.
C’erano tre principali motivi che mi spingevano a passare il mio tempo lì. Era lontano dal campus, la cuoca era un puro genio culinario e c’era ottima musica jazz ad ogni ora, talvolta anche dal vivo.
D’accordo. A voler essere totalmente onesta con me stessa i motivi erano quattro.
L’ultimo era il barista, Desmond.
Solitamente tendevo a snobbare il sesso opposto, non perché non mi interessasse, semplicemente poiché le bastonate prese negli anni passati mi avevano fatto passar la voglia di avere a che fare con esseri tanto superficiali ed infimi. Non avevo di certo una considerazione rosea del genere maschile.
Desmond, tuttavia, aveva qualcosa di differente e questo mi faceva imbestialire.
La prima volta che avevo messo piede nel locale, mesi addietro, nemmeno mi ero accorta della sua presenza. Ero ancora piuttosto depressa per la mancanza dei miei cari e la solitudine che pativo all’interno dell’università, perciò, mestamente, con l’aria di chi non vorrebbe altro che un buco profondo in cui scomparire, mi ero seduta su uno degli sgabelli del bancone, ordinando una birra e tirandomi la frangia nera il più possibile sugli occhi, a nascondere il mio sguardo.
Ero stanca, depressa, certa che non sarei riuscita a tirare avanti in quel modo un altro mese, figurarsi due anni! Il mio sguardo mi aveva sempre tradita, era un libro aperto per chiunque avesse voluto prendersi la briga di leggerlo, per questo non lo alzai dal mio mesto riflesso specchiato nel lucido bancone del bar, nemmeno quando la mia birra mi arrivò davanti.
Allungai qualche dollaro e presi il bicchiere, sorseggiando.
“Non vorrai torturare quella birra bevendola in quel modo spero.”
Non mi ero nemmeno accorta che il barista se n’era rimasto lì, davanti a me. Nel suo tono non c’era scherno o seccante ironia, solo una genuina incredulità.
Non aveva tutti i torti, dovevi essere veramente in crisi depressiva per metterti a sorseggiare una birra.
Abbastanza seccata per l’intervento non richiesto alzai gli occhi azzurri verso il giovane.
“Scusa e a te che cavolo cambia, mh?”
Avevo sperato non notasse i miei occhi, rossi e gonfi. Avevo passato l’intera giornata a piangere, nel parco, prima di andar lì quella sera.
Ma il mio sguardo non era in grado di mentire.
Ero già pronta a sorbirmi una delle classiche frecciatine maschili sulle ragazzine sempre preda di pianti, ma non arrivò. Il che mi stupì, dovevo ammetterlo. Gliene fui grata.
“Tu non sei americana, vero?”
“Si sente, eh?” risposi, con un mezzo sorriso.
“Abbastanza. Da dove vieni?” mi chiese, senza smettere di preparare cocktail e pulire bicchieri. Sembrava davvero a suo agio nel suo lavoro.
“Sono italiana, sono qui da poco tempo per seguire l’Università…”
Che diamine mi rendeva così demente da confidare la mia vita ad un perfetto sconosciuto!? Detestavo quel lato del mio carattere…
“Mi piacerebbe visitarla, l’Italia intendo. Tutti quelli che ci sono stati ne parlano come estasiati.”
Immaginavo. Per un americano l’Italia era la Terra Promessa dell’arte e della cultura.
Avevamo continuato a chiacchierare per tutta la sera, come se ci conoscessimo da sempre e non da poche ore. Era un ragazzo educato e simpatico, oltre che molto carino. I capelli scuri si intonavano perfettamente con la sua carnagione ed aveva due splendidi occhi color nocciola ed un sorriso sincero, guastato solo da una vistosa cicatrice che percorreva in verticale il lato destro della bocca. Un giorno gli avrei chiesto come se la fosse procurata, forse.
Chiacchierare con Desmond era piacevole, fin da subito si erano creati un legame ed un intesa molto particolari e non ci volle molto perché diventasse il mio unico amico in quella città di sconosciuti.
L’unica cosa che non riuscivo a spiegarmi era la costante sensazione di deja-vù che mi pervadeva ogniqualvolta l’incontravo. Mi dava l’impressione di averlo conosciuto da sempre, eppure, prima di quei mesi, ero più che certa di non averlo mai visto.
Probabilmente il mio cervello dava i numeri per il troppo studio. Era la spiegazione più sensata.
Ripensando a quei primi mesi da americana, passeggiavo verso il Meeting Corner. Era una bella serata d’aprile e il sole stava lentamente tramontando dietro i grattacieli e gli alti palazzi del centro. Percorrendo passi ormai automatici, svoltai l’angolo ed entrai nel locale.
Quella sera c’era parecchia gente, un’orchestra jazz suonava dal vivo, ma sapevo che Desmond mi avrebbe comunque tenuto da parte uno sgabello al bancone.
Lo salutai con un cenno della mano e lui ricambiò, indicandomi un posto in fondo al piano del bar.
Mi arrampicai sull’alto sgabello e ordinai la solita birra.
Avevo preso l’abitudine d’osservarlo mentre svolgeva il suo lavoro, i suoi movimenti erano sicuri e fluidi, tranquilli, mi piaceva guardarli. Ogni volta che si voltava verso di me, però, stavo ben attenta a spostare lo sguardo altrove, non volendo che pensasse chissà cosa.
Dovevo ammettere però che negli ultimi tempi mi ero accorta che i miei atteggiamenti nei suoi confronti stavano pericolosamente mutando. Desmond mi piaceva, forse troppo, ed ero ormai conscia che la mia considerazione per lui non rientrasse più nei termini di una normale amicizia.
Dannazione.
Comunque, cercavo sempre di non farlo notare, soprattutto perché ero più che sicura di non essere nulla più di una buona amica per lui. Era destino, gli uomini erano nati per farmi soffrire.
Inoltre, mi accorsi, non avevamo mai parlato della rispettiva vita privata, perciò, per quanto ne sapessi, poteva anche avere una ragazza, magari perfetta ed insopportabile come Catherine. Non si sarebbe mai curato di una normale ragazza italiana, in ogni caso.
Bevvi un po’ di birra mentre ascoltavo un noto pezzo jazz. Quella band era davvero brava, avrebbe meritato di più che esibirsi in un bar, ma il mondo dello spettacolo era un’arena in cui solo i gladiatori più spietati sopravvivevano.
Tutti gli avventori erano concentrati sulla musica, così Desmond, senza nulla da fare, stava appoggiato al bancone, con gli occhi persi nel vuoto. Il mio sguardo, ben nascosto dall’enorme boccale di birra che tenevo con entrambe le mani, vagò a lungo su di lui. Era decisamente attraente, con un bel fisico, il tipo di ragazzo che si vorrebbe ci tenesse strette per ore tra le sue braccia.
Senza accorgermene avevo cominciato a fissare un punto imprecisato del soffitto, rimuginando su quel pensiero, mentre un lieve sorriso malinconico mi velava le labbra.
“A cosa pensi di così tanto irrealizzabile?”
Per poco non mi venne un infarto!
Che stupida, dovevo aver avuto un’espressione davvero idiota e, cosa peggiore, mi ero fatta beccare in pieno.
“Cosa ti fa pensare che stessi pensando a qualcosa del genere?” chiesi col mio inglese fortemente accentato, nascondendo nuovamente il mio volto, ormai rosso come un peperone, dietro al bicchiere. Ero davvero una pessima bugiarda.
“Avevi la classica espressione di chi desidera qualcosa, ma è sicuro che non potrà mai ottenerla.”
“E anche se fosse?” risposi acida. Ecco, l’avevo fatto di nuovo. Quando venivo scoperta, il nervosismo e l’irritazione verso me stessa si tramutavano in un attacco diretto a chi mi stava davanti. Ci mancava solo che avessi cominciato a discutere con l’unico nell’intera città che mi aveva trattata decentemente, o meglio, che non mi aveva ignorata.
“Colpita. Sei prevedibile sai?”
“E tu insopportabile.”
“Vero.”
Disse ridendo. “Lo considererò un complimento, signorina.”
Aveva pronunciato l’ultima parola in italiano, con un accento così forte che non potei non ridere. Non riuscivo a rimanere a lungo arrabbiata con lui.
“Un giorno ti dovrò insegnare decentemente l’italiano.” Gli dissi, ridendo.
Dopo quell’attimo di ilarità, però, tornò alla carica ed io nuovamente con la faccia nel bicchiere per non doverlo guardare in faccia. Dannazione, dovevo smetterla di comportarmi come una bambina.
“Allora, me lo dici a cosa stavi pensando?”
“Perché dovrei? Tanto l’hai detto anche tu, no, che era qualcosa di irrealizzabile?”

Accidenti, la birra era quasi finita e tra poco non avrei più potuto nascondermi con essa.
Con la coda dell’occhio lo notai alzare un sopracciglio, come se sapesse benissimo di cosa stessi parlando, del che, naturalmente, dubitavo, poi appoggiò i gomiti sul bancone, proprio di fronte a me ed in quel momento mi trovai a pensare che quel piano era illegalmente troppo piccolo.
Mi costrinsi a fissare gli ultimi sorsi di alcol che scendevano dentro il bicchiere, sperando che se ne andasse, ma non lo fece. Invece, poso la sua mano sulla mia, costringendomi ad abbassare il boccale.
Non andava bene così, per niente!
A quel punto fui costretta a guardarlo negli occhi e rimasi, naturalmente, paralizzata di fronte a quei riflessi dorati che si avvicinavano pericolosamente a me.
Il cuore mi batteva all’impazzata, ma il mio corpo era come paralizzato. Non riuscivo a muovere un muscolo.
Vedevo il suo viso avvicinarsi sempre più al mio, il suo sguardo indecifrabile fissarmi, con una puta di divertimento, poi, quando il suo naso stava quasi per sfiorare il mio, si fermò.
“Chi ti dice che sia irrealizzabile?” mi disse in un sussurro.
Credo di aver smesso di respirare in quell’attimo.
In quel momento qualcuno fece un’ordinazione e Desmond, lentamente scivolò via, con un sorriso divertito sul volto, lasciandomi interdetta e preda di un rossore un po’ troppo diffuso.
Quella sera rientrai al campus molto prima del solito, malgrado fosse sabato e solitamente spendessi quasi metà della nottata al locale. Ero confusa.
Cosa aveva voluto dirmi?
Forse aveva davvero scoperto cosa mi frullava per la testa ultimamente? Una considerevole parte di me lo sperava, ma il mio Io razionale mi metteva in guardia.
Mi ritrovai a pensare che fosse come tutti gli altri, che non stesse facendo altro che prendermi in giro, solo per divertimento. Magari avrebbe finto che gli piacessi per poi buttarmi via quando non gli fossi servita più…
No, Desmond non era quel tipo di persona, in quei mesi di conoscenza avevo potuto comprenderlo. Avrei lasciato scorrere gli eventi, senza ostacolarli, mi sarei comportata come sempre, aspettando che fosse lui a chiarire la situazione.
Magari si era trattato di un momento isolato, uno scherzo innocente, almeno per lui.
Con questo turbinio di pensieri in testa ed il forte russare di Catherine nelle orecchie, mi addormentai.
 
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Excellent Assassin's
view post Posted on 19/2/2013, 21:17     +1   -1




Bella e scorrevole ^^
Comunque sei alla Sequenza 5? Io ho finito tutti gli AC (Ieri sera AC II perchè lo ho rigiocato), ad eccezzione del primo capitolo che non riesco più a trovare, acciderboli! :asd:
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 19/2/2013, 22:38     +1   -1




Grazie, sono contenta che ti piaccia! =D
Eh si, sono solo a quel punto, ho cominciato a conoscere bene AC solo a novembre, quando un'amica mi ha passato il primo. E' stata la cosa migliore che potesse fare XD
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 24/2/2013, 00:40     +1   -1




(link EFP)

Sequence II


Confusion


L’avevo sognato.
Ovvio.
Avrei dovuto aspettarmelo, dopotutto.
Non che le immagini prodotte dal mio cervello fossero state chissà che cosa, semplicemente avevo rivissuto quel breve ed intenso momento della sera prima.
Averlo così vicino al mio viso aveva fatto scattare in me sensazioni che credevo di aver sopito per sempre. Che stupida.
Il sole filtrava dalle tapparelle chiuse con un’angolazione ancora abbastanza bassa. Guardai la sveglia sul comodino.
Le nove e un quarto. Non male, dopotutto avevo dormito parecchio, mi sentivo fisicamente riposata. L’unica parte di me che non si era data pace era il mio cervello demente.
Catherine dormiva ancora della grossa e dubitavo si sarebbe svegliata prima di due o tre ore. Se avevo imparato a conoscerla bene, doveva aver passato la nottata in discoteca a farsi qualche bonazzo appena conosciuto.
Che squallore.
Proprio vero che ricchezza e intelligenza non andavano quasi mai a braccetto.
Senza nemmeno curarmi se stessi facendo troppo rumore, mi feci una doccia tonificante e mi vestii. Infilate le scarpe da jogging e la felpa, uscii, chiudendomi la porta alle spalle.
Il campus a quell’ora era già piuttosto attivo. Chi, come me, si dirigeva tranquillamente verso la mensa per far colazione, chi già cercava la solitudine della biblioteca, con pile enormi di libri in mano, chi si affacciava assonnato dalla stanza per salutare un conoscente. L’atmosfera non era così male, dovevo ammetterlo.
Raggiunta la mensa mi sedetti in un tavolo vuoto vicino ad una delle grandi finestre, inondata dai caldi raggi del sole, in compagnia di una brioches alla marmellata ed un caffè americano di dimensioni preoccupanti. La sala da pranzo mi piaceva. A qualsiasi ora c’era chiacchiericcio, gente che andava e veniva, deliziosi profumi che aleggiavano nell’aria. Era un luogo vivo e mi rilassava, dandomi l’impressione di essere nel posto giusto.
Impressione che purtroppo non durava mai a lungo.
Dopo mesi ancora riuscivo a sentirmi un estranea lì dentro, una straniera in tutto e per tutto.
Rimuginando su quei pensieri finii la mia colazione e riportai il vassoio al suo posto.
Uscii.
L’aria era frizzante, ma piacevole, una leggera prezza che mi scompigliava i lunghi capelli neri, raccolti in una stretta e bassa coda di cavallo. Respirando a pieni polmoni, infilai nelle orecchie le cuffiette del mio lettore mp3 e partii alla volta del parco.
Di solito preferivo correre nel tardo pomeriggio, mentre la città lentamente si addormentava, assonnata ed i rumori del traffico si smorzavano, lasciando il posto all’allegro vociare proveniente dalle pizzerie e dai locali. Correre mi rilassava e sfogava allo stesso tempo.
Quell’improvviso cambiamento nella mia routine poteva significare solo una cosa.
Ero decisamente un po’ troppo stressata.
Con ritmiche falcate avevo rapidamente raggiunto il grande polmone verde cittadino, così cominciai a percorrerne i sentieri, tra madri attrezzate di passeggini e cani che abbaiavano al mio passaggio.
Dopo una mezz’ora di esercizio, però, notai qualcosa di estremamente strano. Avevo svoltato un paio di volte all’ultimo minuto, cambiando spesso strada e senso di marcia per controllare, ma ormai non avevo più dubbi.
Quel tipo mi stava seguendo.
Il parco a quell’ora era piuttosto affollato, perciò non mi preoccupai dell’eventualità di restare da sola, tuttavia dovevo sbarazzarmi di quell’uomo in fretta.
Accelerò il passo, accorciando la distanza. Doveva essersi accorto di avermi messa in allarme.
Allungai il passo, ripassando mentalmente quanto imparato nei corsi di arti marziali dell’università, conscia che mi sarebbe potuto servire, probabilmente.
L’uomo, che indossava un paio di pantaloni neri ed una felpa chiara con l’ampio cappuccio abbassato, non desisteva, anzi, teneva il mio passo piuttosto bene. Anche lui doveva essere ben allenato, a quanto pareva.
Rinunciai ad ogni tentativo di discrezione e scattai.
Corsi a rotta di collo tagliando in diagonale il grande prato alla mia sinistra, sperando che, insospettito dalla situazione, qualcuno tra i presenti avrebbe provato a fermarlo, ma non accadde. L’incappucciato continuava l’inseguimento e, anzi, era sempre più vicino.
Cominciai ad avere paura.
Cosa voleva da me?
Che idiozia, sapevo benissimo cosa voleva, probabilmente, la stessa cosa che bramavano tutti quelli che in questo malaugurato mondo si divertivano ad aggredire una ragazza.
Quel pensiero fece letteralmente volare le mie falcate.
Nemmeno mi voltai indietro, continuando a correre a perdifiato tra i prati e le siepi.
Velocemente, scartai di lato, infilandomi in un altro sentiero, sperando che il grande albero che avevo aggirato mi avesse nascosta alla sua vista e continuai la mia fuga.
Mi voltai…ed era sparito.
Ce l’avevo fatta, l’avevo seminato.
Rallentai la corsa, aspettando che il mio cuore tornasse a regolare i battiti. Sollievo, in quel momento pensavo solo a quello.
Ma rilassarmi fu una pessima idea.
Appena superai la fila di grandi alberi che mi aveva protetta e scorsi, alla mia sinistra, l’ampio prato verde che avevo attraversato poco prima, ebbi un tuffo al cuore.
Lui era lì, mi aspettava.
Con gli occhi sbarrati dal terrore cercai di fuggire, ma non ne ebbi il tempo.
Nemmeno potei pensare che mi ritrovai sdraiata sull’erba, col sole negli occhi, mentre quel maledetto, sopra di me, mi teneva ferma per le braccia.
Dannazione.
Il bastardo ridacchiava.
L’adrenalina percorreva il mio corpo come un fiume in piena ed agii senza nemmeno pensare. Con tutta la forza che avevo riuscii a liberare una gamba, così riuscii a sferrare a quell’uomo una sonora tallonata nelle parti basse.
Quello gemette dal dolore ma non mollò la presa.
Ero perduta.
“Sempre delicata eh?...che doloreeeee….”
Quella voce…stentavo a crederci!
Il ragazzo lasciò andare le mie braccia e si accasciò di lato, rannicchiandosi e cercando di proteggere la parte lesa.
Mi inginocchiai accanto a lui e gli levai il cappuccio. Desmond.
“Sei un cretino!” gli urlai contro, furente, scandendo l’ultima parola nella mia lingua madre.
“Non so se è per il male, ma non credo di aver capito….” Mi rispose lui, col viso contratto in una smorfia di pura agonia. Se lo meritava, la prossima volta ci avrebbe pensato due volte prima di farmi perdere un polmone e vent’anni di vita dalla paura.
“Ho detto che sei un cretino! Sai cosa vuol dire? Idiota, demente, decerebrato…continuo?”
“No…ho capito…mi aiuti a rialzarmi?”
“Meriteresti che ti lasciassi lì.”
Dissi acida.
Mi alzai in piedi e feci per andarmene, ma quel dannato ragazzino aveva deciso di farmi saltare i nervi quel giorno, per un motivo o per l’altro. Non feci in tempo ad allontanarmi che mi artiglio un polso, strattonandomi, con l’ovvio risultato che, per la seconda volta, andai a baciare l’erba.
Non gliel’avrei data vinta, comunque.
“Mi hai proprio seccata, sai?” dissi, infastidita. Me ne stetti lì, sdraiata a fissare il cielo azzurro, con le braccia conserte in segno di stizza.
Desmond accanto a me ridacchiava.
“Idiota…”
“Avresti dovuto vedere la tua faccia.”
“Stupido. Hai idea dello spavento che mi ha fatto prendere con questo stupido scherzo?!”

“Oh si, ma la tentazione era troppo forte per non farlo.”
Continuava a ridere il dannato. Avevo una gran voglia di picchiarlo.
“Spero che non riuscirai a camminare per almeno due giorni.” lo attaccai.
Gli avevo tirato un bel colpo in effetti.
“Naaa, sono un tipo resistente io.” Rispose, con una nota maliziosa.
Evitai di cogliere la frecciatina e mi limitai ad ignorarlo. I maschi erano proprio tutti uguali, fatti con lo stampino.
Il silenzio si stava facendo imbarazzante, comunque.
“Beh, cosa ci facevi qui? Non hai da lavorare?”
“Comincio all’ora di pranzo. Tutte le domeniche mattina vengo qui a correre, per distrarmi. Però non mi pare d’averti mai vista…”

E mai ne avrebbe avuto di nuovo l’occasione, promisi a me stessa…si, come no…
“Avevo voglia di rilassarmi, non ho dormito troppo bene.”
No! Maledizione, perché non riuscivo mai a chiudere quella mia boccaccia in tempo?!
Con la coda dell’occhio lo vidi alzarsi su un gomito e fissarmi, alzando un sopracciglio. Proprio come la sera prima.
Mi costrinsi a non guardarlo. Potevo ben immaginare quanto sarebbe potuto apparire sexy in quel modo, cosa che assolutamente non ritenevo tra le più salutari da fissare, per amor dei miei nervi.
“Ah. Come mai?”
“Non credo che ti riguardi.”
Gli risposi con finta noncuranza, poggiando le mani dietro la testa, più comodamente.
Lo riguardava, invece, lo riguardava eccome.
“La tua poca voglia di confidarti mi sta letteralmente facendo saltare i nervi, lo sai? Credo che dovrò prendere seri provvedimenti in proposito.” Disse, con voce falsamente seria.
“Problema tuo, non mio. E qualsiasi cosa tu abbia in mente, ti consiglio vivamente di non muovere un muscolo, dopo tutto quello che mi hai fatto passare.”
Non mi riferivo solamente alla corsa fuori programma, naturalmente, ma questo lui non poteva immaginarlo. O almeno lo speravo.
“Questa è una minaccia.”
“Vedila come vuoi.”
Risposi, laconica.
“Pazienza.” Sospirò. “Vorrà dire che correrò i miei rischi.”
Lo sentii muoversi e con la coda dell’occhio ebbi la netta premonizione di cosa stesse per fare.
Sarei morta cerebralmente se non mi fossi scansata da lì, e in fretta.
“Non ci prov…!” gli urlai contro, tentando di sfuggire al mio “triste” destino, ma non fui abbastanza svelta. Di nuovo.
Mentre tentavo invano di prevenire il problema, Desmond rotolò su un lato e prese saldamente i miei polsi, bloccandoli proprio sopra la mia testa, in una morsa da cui non sarei potuta fuggire.
Era forte, maledizione, ed io in quel momento pareva avessi perso ogni residuo di energia.
Non respiravo.
Con le braccia bloccate e la gola secca fissavo il viso di Desmond, che era rotolato proprio sopra di me. Riuscivo ad avvertire chiaramente ogni muscolo del suo corpo, intuendo quanto fosse effettivamente atletico, e cominciai ad avvampare.
Nessun boccale di birra a nascondermi stavolta, nessuna scusa.
Ero più rossa di un peperone maturo e cominciavo a sentire un po’ troppo caldo. Dannazione, eravamo solo ad aprile!
Deglutii.
Il suo viso era tremendamente vicino, tutta la mia visuale era occupata dai suoi indagatori occhi dorati. I miei neuroni cominciarono ad abbandonarmi, uno per uno, irrimediabilmente.
“Bene.” Mi disse, con una voce così profonda e sussurrata che mi fece immediatamente sperare che un meteorite si abbattesse su di me. Non sarei stata padrona di me stessa, altrimenti. “Credo proprio che ora sarai costretta a rispondere a tutte le mie domande.”
Maledetto, a che gioco stava giocando?
Avvampavo, la mia razionalità era andata a farsi benedire. Ringraziai mentalmente il fatto di trovarmi in un parco pubblico affollato di gente.
Non so come, trovai la forza di ribattere.
“Io credo proprio di no. Lasciami.” Dissi, cercando di apparire ferma e risoluta. Purtroppo la voce, tremolante ed insicura, mi tradiva.
Cominciavo a sospettare quanto i miei apprezzamenti non fossero passati sotto silenzio. Avevo il netto dubbio che Desmond si fosse accorto di quanto mi passasse per la testa, ma il punto fondamentale ora era capire se il suo comportamento fosse dettato da un reale interesse e non fosse solo un’infantile e scherzosa volontà di prendermi allegramente per i fondelli a muovere le sue azioni.
Non era certo quello il momento più adatto per indagare, comunque.
Cercai disperatamente di liberare i polsi dalla sua morsa.
Desmond alzò divertito lo sguardo verso i miei tentativi e, in tutta risposta, si avvicinò ancor di più. La punta del suo naso sfiorava il mio e il suo fiato caldo migrò fino alle mie labbra quando mi rispose, ironico.
“E ora cosa vorresti fare?”
Ah, lo sapevo benissimo cos’avrei fatto in quel momento!
Costrinsi ogni muscolo del mio corpo a non muoversi, immobilizzando me stessa nella fissità più completa.
“Io…”
“Sssh…”
mi zittì, chiudendo lentamente gli occhi e cominciando a percorrere, con infinita lentezza, quei pochi attimi che lo separavano da me…
Avevo abbandonato ogni resistenza, spento completamente il cervello.
Al diavolo la razionalità.
Istintivamente, chiusi gli occhi, aspettando l’inevitabile…
“Voi due! Siamo in un luogo pubblico, non nella camera di un albergo!”
Strabuzzai gli occhi, mentre avvertii Desmond rialzarsi repentinamente. Senza più il calore del suo corpo mi sentii…fredda.
Alzandomi a sedere, vidi un poliziotto fermo, in piedi, a pochi metri da noi, fissarci con aria di profondo rimprovero.
Che diamine mi era preso? Lasciarmi andare a quel modo non era da me, avevo sempre avuto un controllo ferreo sulle mie emozioni.
“Ah, ci scusi agente. Ma sarà stato anche lei innamorato una volta, no? Su, non può lasciar correre stavolta?”
Innamorato? Il mio stomaco ebbe un guizzo acrobatico che non riuscii a controllare.
No, meglio darsi una calmata. l’aveva detto solo per tirarci fuori dall’impiccio in cui lui, peraltro, ci aveva cacciati, non c’era alcun altro motivo che avrebbe potuto spingerlo a parlare in quel modo, con quei termini.
Si, era certamente così.
“Bah, per stavolta lascerò correre.” Esordì l’agente, grattandosi la nuca con noncuranza. “Ma che non ricapiti più, intesi?”
“Intesi.” Rispose Desmond, mimando goffamente un saluto militare, mentre il poliziotto se ne andava borbottando commenti sulla gioventù moderna e la sua mancanza di ritegno.
Ancora seduta sull’erba, totalmente spaesata, fissai Desmond con aria interrogativa.
Mi sentivo totalmente assente, come se mi fossi appena svegliata da un lungo sonno popolato dei sogni più strani ed improbabili.
“Cavolo, sono in ritardo!”
L’esclamazione di Desmond mi riportò alla realtà. In effetti era quasi ora di pranzo e il mio stomaco, in tutta risposta, iniziò a brontolare…anche se non ero più tanto sicura si trattasse meramente della fame.
“Ci vediamo a pranzo?” mi chiese, porgendomi la mano ed aiutandomi a rialzarmi.
“Si…a dopo.”
“Perfetto, scappo o il capo mi ammazza.”

E corse via.
Immersa in un vortice di pensieri lo guardai allontanarsi, finchè non fu più a portata del mio sguardo, poi mi incamminai, diretta al Meeting Corner.
“Mi scusi signorina…”
Per la seconda volta in pochi minuti, sobbalzai.
Un uomo sulla cinquantina, dall’aspetto distinto, vestito di un elegante completo grigio chiaro che doveva essere costato quanto una delle mie rette scolastiche, mi si parò davanti. Sul bavero della giacca faceva bella mostra di se una preziosa spilla a forma di croce. Somigliava molto a quella che contraddistingueva gli antichi Crociati. Qualcosa nel suo atteggiamento non mi metteva a mio agio.
Rimasi sulla difensiva.
“Si?”
“Conosce quel ragazzo che è appena corso via da qui?”

La domanda mi spiazzò. Cosa poteva volere quest’uomo da Desmond?
“No, non so di chi stia parlando. Buona giornata.”
Non mi sentivo tranquilla, per qualche motivo sentivo di dovermi allontanare e in fretta. Di una sola cosa ero perfettamente consapevole. Qualsiasi cosa volesse da Desmond, non l’avrebbe ottenuta attraverso me.
L’uomo mi tagliò nuovamente la strada. Brutto segno.
“Strano. A me è parso che vi conosceste e anche piuttosto bene. Dove posso trovarlo?”
“Mi pare di averle già detto che non ho idea di cosa stia parlando! E ora mi faccia passare, o desidera che chiami le forze dell’ordine?”

Con un sorriso sprezzante che non mi piacque per niente, l’uomo mi lasciò il passo.
“Mi scusi se l’ho disturbata, signorina. Le auguro buona giornata.”
E se ne andò, camminando lungo il sentiero.
Non staccai lo sguardo da lui finchè non lo ritenni opportuno, poi presi la strada verso il campus. Non mi sentivo tranquilla, perciò non mi recai al bar, decisa a pranzare in università, sperando che Desmond mi avrebbe perdonata.
Non volevo che quell’uomo potesse arrivare a lui, seguendo me. Forse era una paranoia stupida ed infantile, ma quell’individuo aveva lasciato dietro di sé una sensazione strisciante carica di pessime premesse. E poi, la prudenza non era mai troppa, sarei andata al Meeting Corner quella sera, per cena.
Mentre percorrevo il marciapiede che mi avrebbe riportata nel campus, tuttavia, il pensiero dominante nella mia mente era un altro.
Se quel poliziotto non fosse stato così ligio al dovere…cosa sarebbe potuto succedere?
 
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Excellent Assassin's
view post Posted on 24/2/2013, 10:00     +1   -1




Questo mi è piaciuto più dell'altro =O
Bello, intrigante e come al solito..scorrevole!
Aspetto la prossima sequenza!
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 27/2/2013, 22:04     +1   -1




Grazie mille anche stavolta, magari alla prossima riesco a postare ad un'ora più decente XD
 
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Excellent Assassin's
view post Posted on 28/2/2013, 21:24     +1   -1




Ahahah lol non preoccuparti :)
Anche se un po ' in ritardo buon compleanno, scusami ma ieri non sono stato molto presente sulla forumcommunity XD
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 28/2/2013, 22:49     +1   -1




Ti ringrazio, ma era la laurea, non il compleanno XD Quello è fra due settimane ^^
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 9/3/2013, 15:58     +1   -1




Eccomi con il terzo capitolo!
Ammetto che contavo di "entrare in azione" già da questo punto, ma lo svolgimento psicologico e non della situazione si sta aggrovigliando più del previsto, quindi...keep calm and wait, please XD
Detto questo non ho molto altro da aggiungere se non che spero vivamente che vi piaccia =)
Attendo con ansia i vostri commenti! ^_^
(PS: Dirò solo una cosa....ormai è la fiera della gente che non si fa i fatti proprio in questa fic XD)

Sequence III


Discoveries



Seduta sul comodo davanzale della finestra della mia camera, lasciavo vagare lo sguardo sui prati assolati del campus. Diversi studenti avevano deciso di approfittare del tepore primaverile ed occupavano quelle verdi distese, studiando, chiacchierando, qualcuno addirittura si crogiolava al sole, sperando nella prima debole tintarella.
Avrei voluto anch’io bearmi della giornata, ma la mia mente era troppo affollata di pensieri. Non riuscivo a levarmi dalla testa l’incontro con quell’uomo.
Tutto in lui mi aveva urlato prepotentemente di non dargli ascolto, tanto da farmi cambiare i miei collaudati piani giornalieri. In più, quella croce appuntata al petto continuava a vorticarmi davanti agli occhi.
Mi era stranamente familiare e non perchè l’avessi osservata miriadi di volte nei libri di storia medievale, no...qualcosa, dentro di me, mi legava a quel simbolo in modo misterioso.
Strano pensare come solo pochi giorni prima la mia esistenza fosse stata tranquilla. Deprimentemente monotona, certo, ma perlomeno tranquilla!
Ora mi ritrovavo, nel giro di due giorni, a dover fare i conti con due questioni: l’irritante comportamento di quell’idiota di un barista e l’inquietante comparsa del “crociato”.
Sospirai, volgendo nuovamente gli occhi al prato.
Vagando sui vari studenti scorsi Catherine, poco distante dall’edificio. Strano.
Solitamente passava le giornate del finesettimana immersa nelle vie dello shopping, vederla nel campus in una giornata come quella non era certo la normalità. Continuava a fissare l’orologio e camminava nervosamente avanti e indietro, torturando il prato.
Probabilmente uno dei suoi innumerevoli “cortigiani” doveva averle dato buca.
Ridacchiai.
Ogni tanto le faceva bene beccarsi una batosta in quel campo, che diamine.
Scesi dalla mia postazione di vedetta e mi sdraiai sul letto, accendendo il computer portatile. I miei genitori me l’avevano regalato poco prima della mia partenza, con la promessa di mandar loro un’esauriente mail ogni giorno. Neanche fossi andata in Congo...
Avevo accettato di buon grado, comunque, alla fine non mi costava nulla, così cominciai a scrivere la mia lettera giornaliera, più per distrarmi che per reale necessità di raccontare la mia monotona vita americana.
Fu un vero papiro, ma almeno i miei non si sarebbero lamentati della mia tendenza ad essere telegrafica.
Finita anche quell’incombenza, la noia ricominciò ad impadronirsi di me. Maledizione, non avevo nulla da fare! Ero abituata a trascorrere i miei pomeriggi liberi al bar, così, al momento, mi ritrovavo ad essere disoccupata.
Di studiare non se ne parlava nemmeno. Passavo l’intera settimana sui libri e tra gli appunti, figurarsi se avevo intenzione di tartassare i miei neuroni anche nel weekend. No, decisamente no.
Sbuffando sonoramente, tornai alla finestra...e mi si bloccò il cuore in gola.
Lui.
L’uomo che mi aveva fermata nel parco era proprio nel prato di fronte al dormitorio e, cosa più importante, parlava amabilmente con la mia compagna di stanza.
Scartai subito l’ipotesi che si potesse trattare di una sua nuova fiamma. Catherine teneva un atteggiamento discutibile nei confronti degli uomini, ma su una cosa era sempre stata coerente: non era mai andata con qualcuno più vecchio di lei di più di cinque anni e quello il limite lo superava abbondantemente.
Ero inquieta.
Che avesse scoperto dove abitassi e stesse prendendo informazioni?
Dannazione, Catherine sapeva benissimo dove passavo il tempo tutti i finesettimana, avrebbe potuto rivelarglielo senza problemi. L’astio che si era creato tra noi due, inoltre, le avrebbe dato semplicemente un incentivo in più.
Avrei dato qualsiasi cosa per scoprire cosa si stessero dicendo.
Passai in quello stato di angoscia e preoccupazione diversi minuti, finché, finalmente, l’uomo salutò Catherine, dirigendosi, verosimilmente, verso l’uscita del campus. La mia coinquilina stava rientrando. Avrei abbandonato ogni proposito di ignorarla e le avrei chiesto spiegazioni. Dovevo sapere chi era quell’uomo.
Mi sedetti nuovamente sul davanzale, aspettando l’arrivo di Catherine e, non appena entrò in stanza, partii all’attacco.
“Niente shopping oggi?”
“Scusa, e a te che ti frega?”

Dolce e delicata, come sempre.
“Proprio niente. Era solo un’osservazione.”
Ma sapevo che non sarebbe finita lì. Quanto io ero abile nell’ignorare le parole altrui, Catherine non si sarebbe data per vinta fintantoché non avesse avuto l’ultima parola. Se avessi continuato a stuzzicarla, mi avrebbe detto inconsciamente tutto quanto volevo sapere.
“E comunque potrei farti la stessa domanda. Che cavolo ci fai qui?”
“Ti rigiro la tua risposta?”

Si stava alterando.
“Dio, Cris! Mi dai su nervi! Adesso non sono nemmeno padrona di incontrare mio padre?!”
Fui avvolta dal gelo.
Suo padre?
Questo era un problema, e neanche piccolo.
Cercai di non far notare il mio sgomento e mi alzai, diretta alla porta.
“No, no, fai pure. Vado a farmi un giro.”
“Ma vattene dove ti pare, basta che non mi rompi i c..!”

Uscii sbattendo la porta, prima che le soavi parole da camionista della mia compagna mi arrivassero all’orecchio.
Dovevo pensare, riflettere.
Il fatto che quello fosse il padre di Catherine sarebbe anche potuta essere una coincidenza, così come l’incontro avuto con lui al parco.
Magari fosse stato così...c’era qualcos’altro sotto, lo sentivo, me ne rendevo conto in modo vivido.
Quell’uomo cercava Desmond e doveva essere venuto a sapere che sua figlia viveva nella stessa stanza con la ragazza che tutti i benedetti finesettimana andava al bar dove lui lavorava. Da qui a fare due più due, chiedendo le opportune informazioni alla figlia, il passo era breve.
Dopotutto io e Catherine, nostro malgrado, eravamo perfettamente al corrente, vivendo negli stessi metri quadri, dei rispettivi impegni ed occupazioni.
Camminai a passo spedito attraverso i corridoi, pensando e rimuginando sull’inquietante scoperta. Dovevo avvertire Desmond.
A passo da marciatore olimpico e facendo una strada decisamente più lunga e meno agevole del normale, per timore d’essere seguita, mi diressi al Meeting Corner. Certo, una telefonata sarebbe stata decisamente più veloce, ma quando si è furbi come la sottoscritta ci si dimentica di chiedere il numero di telefono alle persone che si conoscono ormai da mesi. Desmond comunque non era stato da meno.
Quando entrai nel locale, tuttavia, la folla era davvero sostanziosa e Desmond era parecchio indaffarato. Non era il momento adatto per parlargli, avrebbe ascoltato, ad essere ottimisti, un quarto delle parole che gli avrei rivolto, così gli feci un cenno di saluto e mi sedetti ad uno dei tavoli, aspettando.
Aspettai mezza giornata.
Troppo, decisamente troppo.
Maledissi il caldo e la torma di turisti, studenti e famigliole da esso evocate nel bar. Avevo passato l’intero pomeriggio e tutta la sera seduta a quel dannato tavolo, senza avere la possibilità di avvicinarmi a Desmond per più di tre secondi.
Nel frattempo avevo cenato, placando, almeno, l’angoscia del mio stomaco. Era già un passo avanti.
La serata si protraeva con lentezza esasperante e le mie possibilità di parlare con l’impegnatissimo barista erano sempre più esigue, poi, inaspettatamente, fu lui a venire da me. Si sedette velocemente nel posto rimasto vuoto, di fronte a me, con un’espressione confusa e vagamente preoccupata.
“Mi spieghi cosa ci fai ancora qui? Non ti sei mossa da questo tavolo per ore. Che succede?”
Sembrava seriamente preoccupato per me, il che fece svolazzare allegramente le farfalle impazzite che stavano popolando il mio stomaco. Con tenerezza, posò una mano sul mio viso, accarezzandomi lo zigomo col pollice. Il suo tocco era caldo e delicato, sarei potuta rimanere lì per ore, giorni...ma non potevo!
Dannazione, dovevo riprendere un sano controllo sulla mia persona.
Con un movimento che apparve, ne fui sicura, fin troppo controllato, allontanai la sua mano. Ah, quanto mi costava quel gesto, ma evitai di pensarci.
“Desmond, ti devo parlare di una cosa...è molto importante.”
Ero preoccupata, terribilmente, e parve accorgersene.
“Ok. Aspetta qui fino alla fine del turno, poi ne parliamo.” E fece per andarsene, alzandosi dalla sedia, poi però, prima di voltarmi le spalle,tornò sui suoi passi.
“Non è che ha qualcosa a che fare con un uomo sulla cinquantina, alto, con un completo grigio...”
“...e una croce sul risvolto della giacca.”

Impallidii, mentre il mio cuore cominciava a pompare sangue un po’ troppo velocemente.
Era già stato lì.
“E’ venuto qui oggi, ha chiesto di me alla proprietaria, mentre ero in pausa pranzo...Cris, che cosa c’entra quell’uomo con te?”
“Ti ricordi stamattina, nel parco?”
Annuì, lo sguardo concentrato che non riusciva del tutto a mascherare l’ansia che stava impadronendosi di lui. Per qualche motivo, sembrava controllato, però, come se si fosse trovato già altre volte in situazioni simili e sapesse esattamente come comportarsi. Parte del suo sguardo rivelava quanto fosse...combattuto.
“Dopo che te ne sei andato, mi ha fermata, chiedendomi di te. Voleva sapere se ti conoscessi...io, non so perchè, ma non riuscivo a sentirmi tranquilla. Ho negato di conoscerti, ma non credo se la sia bevuta.”
“Continua.” Mi disse, incalzandomi.
“Oggi pomeriggio sono venuta a sapere che è il padre della mia coinquilina, in università. Io non ho idea di cosa diamine voglia quell’uomo da te, ma di una cosa sono certa. Queste non sono coincidenze, Desmond, lui sapeva che sua figlia vive a stretto contatto con me e conosceva i miei movimenti, per questo è andato sul sicuro fermandomi e chiedendomi informazioni. Solo non riesco a capire…perché.”
Ero in preda all’angoscia, sentivo di essere stata tirata in mezzo in un affare che non solo non mi riguardava, ma era anche decisamente più grande di me, qualcosa che non ero affatto in grado di gestire.
“Maledizione!”
Nervosamente iniziò a spostare il peso da una gamba all’altra, portandosi una mano dietro la nuca, in un gesto di stizza. Sembrava un animale in gabbia.
Cominciò a ragionare velocemente, bisbigliando come se io non fossi presente. Era così preso nei suoi pensieri che probabilmente non mi avrebbe dato ascolto, nemmeno se lo avessi preso a pugni per farmi notare.
“Dannazione, ero stato attento, nessuno mi aveva seguito, ero irrintracciabile, maledizione. Nessun cellulare, né mail…e poi che diamine possono volere i Templari da me, io non sto più con gli altri da tempo, non avrebbe senso togliermi di mezzo…”
Templari? Il mio cervello faticava ad assorbire la quantità di informazioni, molte delle quali assolutamente senza senso, almeno all’apparenza, che Desmond stava proponendo, come una cascata, irrefrenabili.
E poi…toglierlo di mezzo? Intendeva dire che il padre di Catherine voleva ucciderlo? Ma perché? Desmond era un barista, che motivo si può avere per assassinare un barista? Troppe domande, troppi interrogativi, troppi vicoli ciechi nella mia mente.
Desmond mi aveva sempre nascosto qualcosa della sua vita, me ne rendevo conto solo ora, un elemento che però adesso sembrava assolutamente fondamentale. Mi chiesi perché. Forse perché non ero altro che una conoscente. Persino la parola “amica” non mi sembrava più appropriata per definirmi, vista la mole di informazioni di cui mi aveva tenuta all’oscuro. Ognuno ha diritto di mantenere una parte di segreto relativo alla propria vita, ma questa parte, mi rendevo conto, era davvero troppo estesa.
Non si fidava di me, non l’aveva mai fatto.
O forse, non si fidava proprio di nessuno.
Avevo la netta sensazione che stesse scappando, ma da cosa lo ignoravo.
“Sei stata tu.”
“Cosa?”

Quell’attacco diretto mi riportò alla realtà.
Desmond mi fissava dritta negli occhi, con espressione tradita e lievemente furente. Non lo nego, in quel momento, non so per quale motivo, ebbi un attimo di sana paura.
“Lavori per loro, non è vero? Era tutto programmato, pianificato fin dall’inizio! Fingerti sola, depressa, nuova arrivata nella grande città, solo per accaparrarti la mia fiducia e potermeli mandare addosso. Magari non sei neppure italiana! E io che ci sono cascato come un idiota…”
Questo era davvero troppo.
Tutta la mia vita ormai gravitava attorno ai pomeriggi passati con lui a chiacchierare, alle sere trascorse al bancone in sua compagnia, ascoltando musica, alle settimane vissute solamente in vista del weekend…e mi accusava di averlo usato o, peggio, tradito?!
Reagii d’istinto.
Alzandomi con veemenza dalla sedia, vibrai un sonoro ceffone sulla sua guancia sinistra, che fece voltare alcuni degli avventori più prossimi nella nostra direzione.
Sul suo volto scorsi sorpresa…oltre ad un ben visibile alone rosso.
“Non azzardarti mai più a rivolgerti a me in quel modo, Desmond.”
Ero così furiosa ed offesa, che lacrime di rabbia già minacciavano di far capolino dai miei occhi lucidi.
Esitando, rivolse nuovamente lo sguardo nella mia direzione.
“Io…”
“Tu,”
esordii, interrompendolo, “sei un emerito deficiente se pensi che mi sia mai anche solo potuta venire in mente una cosa del genere.”
Non sostenne il mio sguardo, abbassandolo fino a fissare il pavimento.
Feci un passo verso di lui.
“Guardami negli occhi.”
Attesi che le sue pupille dorate tornassero a tuffarsi nel profondo oceano delle mie.
“E adesso dimmi: ti sembrano gli occhi di chi è in grado di tradire un amico? Lo sai che con lo sguardo non so mentire, per niente.”
Mai parole furono più vere.
Lo vidi esitare, poi sospirò, chiudendo gli occhi e, avvicinandosi a me, mi prese tra le sue braccia, in una stretta calda e rassicurante. Mi lasciai trasportare, nonostante la mia razionalità mi urlasse che, in quella situazione, c’erano questioni più pressanti da risolvere. Appoggiai il viso contro la sua spalla, inebriandomi del suo profumo, mentre con una mano mi teneva dolcemente il capo contro di sé. Avvertivo il suo viso affianco al mio…
Avrei dato ogni cosa, pur di poter fermare il tempo in quell’attimo perfetto.
“Scusami…”
In risposta, mi strinsi ancor di più a lui, circondando con le braccia la sua schiena, in un abbraccio liberatorio che Desmond ricambiò.
“Des, maledizione, il bancone è scoperto!” udii, in un soffio seccato che mi ricordò immediatamente il gatto di una mia vecchia conoscente.
Era la proprietaria, giunta a richiamare Desmond all’ordine.
“Si, subito.” Le rispose, lasciandomi andare, con una lentezza esasperante che non fui in grado di comprendere fino in fondo.
Mi prese per le spalle, fissandomi intensamente, con uno sguardo che non ammetteva repliche.
“Ascoltami bene, non uscire da qui finchè non ho terminato il turno. Ti riaccompagno al campus.”
Ero stranita. Non si era mai posto il problema prima d’ora.
“Guarda che so difendermi da sola, non ho bisogno di una balia.”
Sorrise, divertito dal paragone, per poi tornare decisamente serio, solo un attimo dopo.
“Fammi questo piacere, per favore. Mi sentirò più tranquillo.”
Confusa, annuii, riprendendo il mio posto ed attendendo la chiusura del locale, la quale giunse, coronata da ore di pensieri angosciosi e quesiti senza soluzione apparente, con estrema lentezza.
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 16/3/2013, 12:57     +1   -1




Eccomi con un nuovo aggiornamento!
Probabilmente mi odierete ora della fine del capitolo perchè rispetto agli altri è...lunghissimo D:
Chiedo scusa fin d'ora, ma non sono riuscita a fermarmi.
Come sempre ecco il link di EFP dove pèotrete recensire, se vi va =) --> EFP
Buona Lettura!!!!


Sequence IV

Beginning



Uno ad uno gli avventori del locale lasciavano i loro posti, tornando alle proprie case, chi solo, com’era arrivato, chi in piacevole compagnia, soddisfatto per la buona riuscita della serata. Io, invece, ero ancora seduta al mio tavolo, i nervi che minacciavano di scappare per l’agonia cui li stavo sottoponendo.
Il bar era ormai quasi completamente svuotato, ma sapevo bene che Desmond non avrebbe potuto lasciare il suo posto fin quando anche l’ultimo cliente non fosse uscito dalla porta. Poi avrebbe dovuto occuparsi della sistemazione del bancone, della pulizia dei tavoli ed altro ancora. Sperai vivamente che gli sarebbe stato permesso di esentarsi da queste ultime incombenze, o avrei passato la notte lì.
Lo vedevo, appoggiato al bancone, tamburellare nervosamente con le dita sulla lucida superficie nera, lo sguardo falsamente calmo. Potevo solo lontanamente immaginare il turbinio di pensieri che stavano affollando la sua mente.
Sul lato sinistro del viso, l’alone rosso che gli avevo procurato non era ancora scomparso del tutto. Sorrisi.
Davvero un bel colpo, non c’è che dire.
Tuttavia non ne era affatto pentita. Se l’era meritato.
Un’altra volta avrebbe soppesato con più cura le parole e compreso meglio chi si trovasse di fronte. Da me non aveva nulla da temere, detestavo ammetterlo, ma non sarei mai stata in grado di fargli intenzionalmente del male, nemmeno sotto minaccia di tortura.
Quello era un lato del mio carattere che detestavo e avrei volentieri soppresso, se solo avessi potuto…
Sospirai.
La situazione non migliorava, ero ancora bloccata lì.
Soppesai l’idea di andarmene al campus per conto mio, ma avevo la netta sensazione che Desmond avrebbe potuto legarmi ad una sedia, piuttosto che permettermi di farlo, perciò accantonai l’ipotesi.
Per ingannare il tempo, mi diressi per l’ennesima volta al bagno, a darmi una rinfrescata.
Aprii il rubinetto dell’acqua e lasciai che scorresse lungo i miei polsi, rigenerandomi. Gran seccatura la pressione bassa.
Evitai che la mia mente vagasse sull’allarmante situazione in cui mi trovavo, avevo bisogno di calmarmi, riordinare le mie confuse idee. Non sapendo su cos’altro concentrare i miei pensieri, caddi inevitabilmente nel ricordo degli ultimi due giorni.
Non riuscivo più a comprendere quel ragazzo.
Forse, non l’avevo mai compreso del tutto.
L’istinto, sognatore ed infantile, continuava a sussurrarmi dolci melodie. Forse Desmond si era accorto del mio cambiamento d’atteggiamento nei suoi confronti e, sempre ipoteticamente, si era reso conto di provare le stesse emozioni. Ecco spiegato il suo comportamento degli ultimi giorni, primo fra tutti il suo “scherzetto” al parco, quella stessa mattina. Stormi di farfalle cominciarono a volteggiare nel mio stomaco al solo pensiero.
Sarebbe stato perfetto.
Ma la ragione, fredda e calcolatrice, temprata dalle troppe delusioni, mi metteva in guardia. Se fosse stato solo un interesse momentaneo? Dopotutto, avevo sempre notato quale fosse la qualità di ragazze che gli girava attorno, al locale, perfette, sempre ben truccate, con chiome fluenti e vestiti firmati. D’accordo, lui non aveva mai dato loro corda, ma, dopotutto, chi mai potrebbe farlo sul posto di lavoro? Non significava nulla.
Ed io non ero nemmeno lontanamente paragonabile a quel tipo di donna.
Alzai gli occhi, guardando stancamente la mia immagine, riflessa nello specchio sopra al lavandino. Non avevo alcuno sguardo magnetico, solo due occhi ordinari, di un bell’azzurro, certo, ma senza nessuna particolarità. I capelli, poi, non avrebbero potuto essere più anonimi…neri, lunghi, tutti completamente lisci e della stessa precisa lunghezza, eccezion fatta per la lunga frangia. Una mia vecchia professoressa mi paragonava spesso ad un’egiziana, per via della mia pettinatura, ma di quell’etnia non avevo proprio nulla, a partire dalla carnagione, concorrenziale coi migliori latticini in circolazione.
In quanto a fisico, poi, l’autocritica si sprecava. La vita sportiva rendeva tonici, ma di certo non magri e quello era un assunto scientifico che su di me avrebbe potuto trovare la più completa conferma.
Inoltre, non ero il tipo di ragazza che passava le ore davanti allo specchio, imbellettandosi. Oltre ad un velo di trucco attorno agli occhi, giusto per far notare che esistevano, ed un’idea di correttore, se necessario, non andavo.
Ogni volta che mi soffermavo sul mio aspetto fisico mi deprimevo.
Almeno, però, avevo raggiunto il mio obiettivo. Impegnare il mio cervello in qualcos’altro.
Inoltre la mia veloce autoanalisi aveva chiarito anche un altro problema. Di certo un ragazzo come Desmond non si sarebbe mai messo a perdere il suo tempo con una come la sottoscritta, il che avvalorava di gran lunga la tesi proposta dalla ragione.
Tempo una settimana, un mese ad essere ottimisti, e tutto sarebbe tornato all’origine.
Mi voltai, appoggiandomi al lavandino e passandomi le mani sul volto, sconfortata. La mia vita andava a rotoli, era come se, oltre allo studio, non mi fosse stato concesso di gioire del successo in nessun altro campo.
Una maledizione.
“Sei lì?”
Sobbalzai. Ero così impegnata a deprimermi che non mi ero resa conto del tempo trascorso. Desmond doveva essersi chiesto che fine avessi fatto.
“Si, eccomi.” Gli risposi, uscendo.
Aveva già infilato il suo giubbotto nero di pelle e teneva il casco della moto sottobraccio, pronto per andare. I miei buoni propositi di non farmi coinvolgere vacillarono prepotentemente nel notare quanto quella giacca gli stesse dannatamente bene.
Stavo per seguirlo, quando mi resi conto che, nella fretta di raggiungerlo, quel pomeriggio, ero uscita in felpa, approfittando del caldo, tuttavia dubitavo seriamente che la temperatura, di notte, potesse definirsi mite. A cavallo di una moto, poi…
“Ehm…andiamo con la tua moto?” chiesi titubante, non volendo rendere palese la mia sbadataggine.
“Si, faremo più in fretta.” Poi si bloccò, alzando un sopracciglio, dubbioso. “Qualcosa non va?”
“Sono senza giacca.” Ammisi, sentendomi istantaneamente un’idiota. Dove diamine avevo avuto la testa quel pomeriggio?
Una vocina nel mio cervello mi sventolò la risposta sotto il naso. La zittii con cattiveria.
“Perciò…se potessimo andare a piedi. Così eviterei di congelare.”
Sorrise divertito, scuotendo il capo.
“Tutto qui il problema?”
Ecco, ora si prendeva pure gioco di me. In quei momenti mi sentivo un’adolescente ipertesa alle prese con le prime tempeste ormonali. Dannazione.
“Tieni.” Mi disse, tranquillo, sfilandosi la sua giacca e porgendomela.
“Ne avrai un’altra, spero.” Dissi, esitando nell’accettare il suo gesto di cavalleria. Non avevo intenzione di sentirmi in colpa per le due settimane successive, causa di una polmonite che, certamente, si sarebbe procurato, andando in moto in felpa.
“No, ma non preoccuparti, non fa così freddo.”
Ecco, appunto.
“Non se ne parla, non ho nessuna intenzione di averti sulla coscienza. Ti prenderai un accidente!”
Ridacchiò, avvicinandosi.
“Beh,” iniziò, posandomi la giacca sulle spalle, “se prometti di venire a prenderti cura di me, mi potrei anche ammalare volentieri...”
Avvampai, come da copione, abbassando gli occhi.
Ultimamente sostenere il suo sguardo stava diventando sempre più difficile.
“Te lo puoi scordare...” dissi, ma credo che il mio tono fosse risultato molto poco convinto perchè quel dannato ragazzino trattenne a stento la sua ilarità.
Fulminea sgattaiolai lontano dal suo campo d’azione, uscendo dal locale. L’aria era davvero frizzante, il che mi fece montare su tutte le furie. Detestavo sentirmi di peso e Desmond, che ne fosse conscio o meno, stava riuscendo brillantemente in quell’intento.
La lieve brezza non era ancora poi molto primaverile a quell’ora, perciò infilai la giacca di Desmond, decisamente troppo grande per la mia taglia. Le spalle mi cascavano lungo le braccia ed il fondo mi arrivava quasi sopra alle ginocchia. Dovevo sembrare parecchio ridicola.
Però era calda, piacevole e profumava di...lui.
Immediatamente la mia mente venne trsaportata a quell’abbraccio...lo stesso calore...lo stesso profumo...
“Sarà meglio che ti metta questo.”
Istantaneamente tornai alla realtà.
La mia mente aveva preso la pessima abitudine di scollegarsi da mondo reale un po’ troppo spesso per i miei gusti.
Afferrai il casco integrale che mi porgeva e lo infilai, trafficando parecchio con la chiusura, prima di riuscire ad averne ragione, con suo gran mal celato divertimento.
Mi immaginai, vestita di un giubbotto troppo grande e con la testa in forma di una grossa boccia da bowling nera e lucida...mi veniva quasi da ridere. Se avessi immortalato il momento con una foto, di certo ne avrei riso per il resto dei miei giorni.
La moto di Desmond era lì davanti a noi. L’avevo vista molte volte, ma mai mi era venuta l’insana idea di salirci sopra.
Beninteso, non avevo nulla contro le due ruote, anzi, tuttavia avevo visto un paio di volte la velocità cui quel mezzo poteva giungere, se guidato dal pazzo scriteriato che in quel momento stava affianco a me.
Era una moto sportiva, ma era comunque omologata per due, in caso di necessità, perciò presi posto senza difficoltà dietro Desmond. Poi realizzai che non avevo alcun appiglio cui affidare la mia esistenza durante quella che, ne ero certa, sarebbe stata la folle corsa di uno sbruffone.
Cercai invano ai lati del sellino un intercapedine o una qualche sorta di maniglia che servisse allo scopo, ero certa di averne viste su qualche scooter.
“Ehm, Desmond...non c’è niente cui aggrapparsi qua dietro.”
Voltò il casco verso di me. Anche attraverso il vetro potevo scorgere i suoi intensi occhi dorati. La voce mi arrivò lievemente metallica, mediata dal casco.
“Certo che no.” Rispose, ridacchiando come se avessi appena detto la più grande stupidata del mondo. “Mica è uno scooter. Le moto di questa cilindrata non hanno quel tipo di optional.”
Il problema restava e, disgraziatamente, cominciava a prospettarmisi l’ovvia soluzione.
“Scusa, io dove diamine mi aggrappo?”
Domanda retorica, già sapevo quale sarebbe stata la risposta.
I suoi occhi sorrisero.
“A me.”
Infatti.
Si voltò, accendendo il motore, che prese vita con un rombo assordante, esibendo tutta la sua considerevole cilindrata.
Titubante, afferrai la felpa di Desmond in vita, sperando che fosse sufficiente per tenermi in sella. Lo udii distintamente sbuffare, ma non feci in tempo a domandarmene il motivo, perchè ogni angolo di me stessa venne impegnato nell’immane sforzo di non cadere, nel momento in cui il mezzo fece una fin troppo rapida accelerata. Istintivamente, mi aggrappai a lui con tutte le mie forze, mentre, un attimo dopo, la moto prese a rallentare, mantenendo un’andatura sempre decisamente veloce per i miei gusti, ma senza dubbio più controllata.
“Così va meglio.” Lo sentii bisbigliare.
Quell’infame...era tutto un trucco.
Avrei voluto picchiarlo, ma ne sarebbe andata della mia vita, perciò mi limitai a tirargli un ben assestato pizzicotto su un fianco.
“Ahi! Ma che..!”
“Taci e guida! Così impari a fare il furbo.”

Non replicò, ma sentii la sua schiena sobbalzare lievemente.
Rideva di me quel maledetto!
Imbronciata, evitai di continuare l’infruttuosa discussione e mi rassegnai all’evidenza.
Ero ormai abbastanza certa che quel dannato ragazzino si fosse accorto di ogni millimetro di film mentale che vagava nel mio cervello, perciò non avrei dovuto stupirmi per i suoi continui giochetti degli ultimi giorni.
Ma allora perchè mi sentivo così a disagio?
La risposta era semplice. Paura.
Paura di non essere ricambiata, paura che si stesse semplicemente prendendo gioco di me, paura di vederlo felice con qualcun’altra...semplice e pura paura.
Forse era un sentimento stupido e mi stavo fasciando la testa per nulla, ma come esserne poi così sicura?
Ora ero lì, potevo abbracciarlo, stringerlo a me...ma quanto sarebbe durata? Solo l’infimo tempo di una corsa in moto.
Mi rendevo tuttavia anche conto che, probabilmente, le mie continue recriminazioni ed esitazioni mi stavano allontanando da una possibilità. Dopotutto, nessuno avrebbe mai potuto o saputo dirmi come sarebbe andata a finire, ammesso che fosse cominciata, questa situazione. Magari, la questione avrebbe anche potuto risolversi per il meglio.
In quel caso, ero davvero così ostinata da non dare nemmeno una possibilità al mio infame destino?
Poi, c’era quell’uomo, quel Templare, come l’aveva chiamato Desmond. Se davvero gli stava dando la caccia, non sapevo quanto tempo ancora avrei potuto trascorrere con lui. Forse sarebbe dovuto fuggire, o nascondersi...ed io, allora, non avrei più avuto nulla cui aggrapparmi, nemmeno un misero ricordo...
A volte il cervello va mandato in vacanza forzata.
Mi stavo perdendo in pensieri ed elucubrazioni che mi stavano facendo perdere di vista ciò che era veramente fondamentale per me in quel momento. Io desideravo solamente passare quanto più tempo possibile con lui e, per quanto mi costasse ammeterlo, nessun ragionamento razionale e logico sarebbe mai riuscito a cancellare questa pressante e fastidiosa sensazione di bisogno.
Perciò, al diavolo i ragionamenti.
Per la prima volta dopo molto tempo, avrei soppresso i miei iperattivi neuroni.
Feci ciò di cui sentivo il bisogno in quel momento.
Facendo scivolare le mie braccia, rafforzai la presa, cingendolo completamente e aderendo alla sua schiena. Il mio cuore batteva all’impazzata a stargli così vicino ed ero perfettamente conscia che se ne sarebbe potuto tranquillamente accorgere, ma non m’importava minimamente. Con un braccio gli circondai la vita, con l’altro il petto, la mia mano sul suo cuore che, notai, era piuttosto ballerino in quel momento.
Sorrisi tra me e me a quella considerazione.
Vittoria.
Lo sentii irrigidirsi lievemente, per poi rilassarsi subito dopo. Per una volta, ero stata io a coglierlo di sorpresa e ne ero piuttosto soddisfatta.
Ringraziai mentalmente la situazione, tuttavia. Non doverlo guardare negli occhi rendeva tutto più semplice, ogniqualvolta il suo sguardo incrociava il mio non ero più in grado di pensare con totale lucidità e, come risultato, scappavo.
“Ehm...Cri, potrei iniziare a guidare un po’ peggio a causa tua...”
L’avevo messo in difficoltà, eccome. Avrei pagato lautamente per poter vedere la sua faccia in quel momento...ma forse non sarebbe poi stata una buona idea.
In qualche modo, comunque, dovevo ribattere, così decisi di non scoprire le mie carte. Dopotutto, una considerevole dose di fifa, mista ad imbarazzo, ancora persisteva.
“Non cominciare a farti strane idee. Semplicemente, non voglio che tu muoia di freddo.”
Come no.
Avrei anche potuto spremere meglio le meningi ed inventarmi una panzana migliore di quella, in effetti.
“Ah, questo credo si possa escludere...”
Effettivamente, sommando la mia temperatura corporea alla sua, avremmo potuto benissimo superare le vette di calore registrabili su una duna del Sahara alle due del pomeriggio. La situazione mi sarebbe potuta sfuggire di mano.
Arrivata in camera mi sarei fatta una doccia fredda, ghiacciata, polare addirittura. Ne avevo un gran bisogno.
Appoggiai la testa sulla sua spalla e rimasi immobile, fissa in quel momento perfetto.
Avevo sperato che quel viaggio durasse a lungo, ma, ne ero conscia, il campus non era poi così lontano. Così, dopo pochi minuti, arrivammo a destinazione ed io dovetti mollare la presa.
Fermò la moto proprio davanti al pesante cancello in ferro battuto dell’entrata. Da lì un lungo viale di ghiaia percorreva rettilineo i curati prati del complesso, dipartendosi in tanti vicoli e vie tante quante erano le strutture di quell’immensa università. I dormitori femminili erano dall’altra parte del complesso, naturalmente.
L’idea di dovermi separare da Desmond mi dava un’insana ed immotivata sensazione di perdita, come se fossi legata a lui da un filo così resistente che spezzarlo avrebbe richiesto un’immane e sovrumana fatica.
Così non andava, per niente.
Scesi dalla moto e gli restituii il casco, slacciando la giacca, per restituirgliela, quando mi fermò.
“Tienila, me la ridarai una volta arrivata al dormitorio.“
“Se ti piace congelare...”

Dissi, acida, come ogni volta che mi trovavo costretta a fissare il suo sguardo. Ero aggressiva per difesa, una cosa davvero stupida ed infantile.
Mi avviai per il viale, decisa a raggiungere in fretta la mia camera, ma dopo pochi passi Desmond mi affiancò, tenendo senza difficoltà il mio passo, cingendomi le spalle con un braccio e tirandomi a sè.
Parità.
Stavolta era lui ad avermi presa alla sprovvista.
“Beh?”mi rivolsi a lui, chiedendo spiegazioni per quel gesto.
“Sto evitando di congelare, contenta?” mi rispose, sorridendo, senza smettere di guardare di fronte a sè.
Mi stava facendo impazzire.
Il mio Io irrazionale stava cominciando a pensare cose che normalmente non sfioravano il mio cervello nemmeno di striscio.
Concentrai l’unico neurone superstite sul pensiero dell’imminente doccia glaciale.
Metà dell’esserino in questione, tuttavia, doveva essere partito per la tangente, poichè, senza quasi rendermene conto, risposi esitante al suo gesto, circondandogli la vita col braccio.
Mi strinse ancor di più verso di sè.
Il dormitorio si avvicinava lentamente, troppo per quanto mi riguardava. Le luci erano ormai tutte spente, eccezion fatta per qualche lumicino che ancora si intravedeva, segno di qualche studentessa stacanovista che ancora stava studiando. Pazza, chiunque essa fosse.
I prati erano silenziosi, i fili d’erba mossi dalla lieve brezza e, sopra di noi, la luna vegliava il limpido cielo trapunto delle poche stelle visibili. I rumori della città giungevano attutiti e lievi, segno che anche la vita notturna stava volgendo al termine.
In un’altra situazione, quello scenario mi sarebbe apparso fin troppo romantico, ma il tarlo della preoccupazione continuava a rodermi e non potei apprezzare appieno quell’atmosfera.
Passeggiando con calma, arrivammo in vista del dormitorio.
Qualcosa davanti a noi, mi fece arrestare, tirando la felpa di Desmond perchè facesse lo stesso. Davanti all’ingresso del complesso c’era una berlina scura, dai vertri neri come la notte...e da cui era appena uscito il padre di Catherine.
“Mettiti il cappuccio, subito.”
Obbedii senza nemmeno chiedere spiegazioni, colpita dal tono autoritario della voce del mio amico. Estrassi dalla giacca l’ampio cappuccio della mia felpa blu e me lo calai sulla testa.
“Perchè?” chiesi, preoccupata e in ansia.
“Non devono riconoscerti, è me che vogliono.”
Cominciavo a capire. Se fossi stata riconoscibile, avrei dovuto abbandonare la città a causa sua, mi avrebbero associata immediatamente a lui e, qualunque fosse il motivo di tale interesse verso Desmond, io sarei di certo stata in pericolo.
Non voleva mettermi in mezzo...solo che, probabilmente, era troppo tardi.
Il “crociato” si accorse della nostra presenza, e fece un cenno nella nostra direzione. Istantaneamente mi voltai, vedendo un gruppetto di uomini in tenute d’assalto nere, correre verso di noi, armati.
Eravamo in trappola.
Agii d’istinto.
“Attraverso il prato, svelto!”
Spinsi Desmond verso la direzione indicata e cominciammo a correre. Non ci volle molto perchè mi staccasse considerevolmente. Era molto più veloce di me, l’avrei solo rallentato.
Le gambe mi bruciavano per lo sforza di tenergli dietro e compresi che non sarei riuscita a farlo.
“Continua a correre, li tratterrò.”
Rallentavo, senza nemmeno volerlo. Ero al limite.
Mi fermai, piegata sulle ginocchia, ansimando. I polmoni mi bruciavano a tal punto che uno spiacevole sapore ferroso mi invase la bocca. Sentivo il vocio degli inseguitori avvicinarsi. Di certo non avrei mai potuto fermarli, ma almeno li avrei rallentati quel tanto che sarebbe bastato per lasciare a Desmond il tempo di fuggire.
In quel momento realizzai che, forse, non l’avrei più rivisto.
Senza che lo volessi, lacrime iniziarono a rigarmi il volto. Rabbia, tristezza, afflizione, ingiustizia, tutti sentimenti che sentivo bruciare in me. La vita era crudele.
“Non ci pensare neanche.”
Alzai gli occhi e vidi Desmond prendermi per un polso e trascinarmi via, di corsa.
“Idiota, ti rallenterò e basta!”
“Chiudi quella bocca e corri, maledizione!”

Non avevo la forza di ribattere.
Era uno stupido, stava abbandonando una certa possibilità di fuga per trascinarsi dietro me, che altro non rappresentavo che zavorra per lui. Perchè stava facendo questo?
Se l’avesseo catturato, non me lo sarei mai perdonata.
Arrivammo alla cancellata di confine. Desmond spiccò un balzo e, aggrappandosi alle punte acuminate sommitali, si issò dall’altra parte, non prima di essersi tirato dietro anche me. Ringraziai mentalmente le misere ma fruttuose ore trascorse nella parete d’arrampicata del campus. Senonaltro, mi avevano evitato di rompermi l’osso del collo.
Una volta in strada, la nostra corsa non si fermò, impelagandosi nei più stretti ed inaccessibili vicoli. Ero tremendamente sudata, i polmoni mi bruciavano ad ogni respiro ed il cuore stava scoppiando per lo sforzo. Anche Desmond stava iniziando a dare segni di cedimento, nonostante mi fossi stupita della sua atleticità e resistenza fisica. Che razza di allenamento faceva?!
Attraverso le scale antincendio, giungemmo sulla terrazza di un piccolo edificio di cinque o sei piani, non ero riuscita a contarli mentre salivo. Ero totalmente spaesata, nemmeno sapevo dove mi trovavo, avevo completamente perso l’orientamento durante la fuga.
Sulla terrazza non cera nulla, a parte noi due e il piccolo cubetto che, immaginai, doveva essere lo stanzino d’ingresso per la manutenzione degli ascensori. Non era una buona posizione, molti altri edifici intorno erano più alti di noi, tuttavia Desmond non parve preoccuparsene e ne intuii il motivo. Durante la corsa, varie volte ci eravamo trovati sotto tiro, ma i nostri inseguitori non avevano mai esploso un colpo.
Qualunque fosse il motivo, lo volevano vivo.
Questa consapevolezza ci permetteva quindi una relativa tranquillità, anche in quel luogo così esposto. Inoltre, nessuno dei due sarebbe stato in grado di proseguire, senza una pausa.
Continuavo comunque a non capire perchè avesse insistito per trascinarsi dietro la sottoscritta. Ero stata solo un peso, lenta e stanca com’ero, avrebbe dovuto lasciarmi indietro e salvarsi. Di certo senza di me sarebbe arrivato più lontano.
Ancora ansimante, mi lasciai cadere lungo il muro esterno dello stanzino, la testa appoggiata e rivolta verso l’alto.
Desmond era poco distante. Le spalle si alzavano e si abbassavano al ritmo dei suoi veloci respiri, nel tentativo di recuperare fiato. Non riuscivo a vedergli il volto, ma la rigidità del suo corpo parlava per lui. Era arrabbiato, confuso e, forse, anche amareggiato.
“Perchè?”
Il suono uscì flebile, ma fu sufficiente perchè si voltasse. I suoi occhi dorati brillavano anche alla luce della luna.
“Che cosa?”
“Avresti dovuto lasciarmi, permettermi di rallentarli, a quest’ora saresti già stato molto più lontano. Non ho fatto altro che rallentarti per tutta la durata della fuga...perchè mi hai portata con te?”

Non era un rimprovero, affatto, solo volevo cominciare a capire, sciogliere almeno in parte l’ambiguità che si era creata tra noi e nella mia vita. Aveva appena commesso un atto senza apparente senso, avevo bisogno di spiegazioni.
“Tu che avresti fatto?”
Questo era un colpo basso. Rispondere ad una domanda con un quesito. Furbo.
“Non lo so...”
Era vero. Non avevo la più pallida idea di come mi sarei comportata io stessa nella sua situazione. Forse sarei corsa indietro anch’io, come aveva fatto lui...
Fissò lo sguardo nel vuoto, verso la città.
“Non avrei potuto lasciarti lì.”
Questo non rispondeva alla mia domanda.
“Perchè?”
Stavo diventando monotona.
Volevo sapere le sue motivazioni, ma, allo stesso tempo, ne avevo paura...
Si volse di nuovo verso di me, facendo qualche passo, avvicinandosi, mentre un sorriso incredulo si disegnava sul suo volto.
“Davvero non lo immagini?”
No, decisamente non era quello che stavo immaginando io, ne ero certa. Le mie più rosee aspettative vennero brutalmente zittite. Di certo non era quella la motivazione...non sarebbe potuta mai essere quella...
“Penso di no...” dissi, amareggiata.
Sospirò, avvicinandosi e sedendosi al mio fianco, guardandomi negli occhi. Era di fronte a me, non avevo possibilità di fuga.
“Non sopporto le ragazze che si autocommiserano.”
“Non mi sto affatto autocommiserando!”

Maledizione, come faceva ad intuire sempre tutto così precisamente? Seccata mi voltai dall’altra parte.
“Allora ti sottovaluti...o no?”
Continuai a starmene ostinatamente girata dall’altra parte.
“Non sono affari tuoi, mi pare.”
“Pensi che nessuno potrebbe mai interessarsi a te, non ti senti all’altezza nè per aspetto, nè per carattere, ritieni di non essere il tipo di ragazza che potrebbe mai colpire qualcuno. Continuo?”
“Ho detto che non sono affari tuoi!”

Avrebbe dovuto fare lo psicologo. Aveva appena centrato ogni singolo punto capace di farmi montare su tutte le furie, mi aveva appena descritta alla perfezione.
Se anche lui se n’era reso conto, allora non avevo davvero speranze. Per la rabbia, una singola lacrima scese impunemente, prima che potessi bloccarla.
Perfetto, ora la figura era completa.
Già prevedevo i commenti che ne sarebbero usciti, ma mai avrei potuto immaginare quanto invece mi stessi sbagliando.
Chiusi gli occhi, restando voltata, fuori dal suo sguardo indagatore. Volevo scomparire, seppellirmi in una buca profonda e non uscirne prima di almeno un mese.
Poi avvertii una mano posarsi delicatamente sul mio viso, asciugando quell’unica lacrima e costringendo il mio volto a guardare nuovamente dalla sua parte. Aprii gli occhi, solo per trovarmi di fronte i suoi.
“Sbagli...”
Il suo viso era proprio di fronte al mio, il suo sguardo occupava la mia intera visuale. Avevo il cuore in gola, eppure trovai ancora la forze di parlare.
“No, non sbaglio. Sono io quella che ha passato l’esistenza a restare nell’ombra, inosservata, utile solo per confidarsi e magari chiacchierare, io che ho visto i ragazzi che mi piacevano fidanzarsi con le mie amiche e diventare i miei migliori amici, io che vedo quelle donne perfette ronzarti attorno tutti i giorni, sapendo che non potrò mai farti interessare a me come loro riescono a catturare il tuo sguardo. Quindi, non venire a dirmi che sbaglio, dannazione! Non hai nemmeno idea di quello che sto passando per causa tua!”
Ormai la frittata era fatta. La rabbia e la frustrazione mi avevano dato il coraggio di dirgli e rivelargli quanto prima non osavo. Non mi interessava più nulla, ero stufa dei sotterfugi, stufa della confusione e di tutte le ambiguità. Volevo chiarezza, bianco o nero, non quell’infinita varietà di grigi.
Notai dal suo sguardo stupito quanto non si aspettasse un’invettiva del genere da parte mia. Tuttavia non si allontanò di un millimetro.
Sembrava davvero che si stesse divertendo a prendersi gioco della sottoscritta. Non ne potevo più.
“Smettila di guardarmi in quel modo e vedi di allungare le distanze, sono stufa di essere presa per i fondelli da gente che...!”
Non riuscii a finire la frase, perchè mi mise una mano davanti alla bocca, zittendomi e quasi soffocandomi. In quel momento il mio istinto omicida era ai limiti storici.
Chiuse gli occhi, sospirando e aggrottando la fronte. Quando li riaprì vi lessi rimprovero.
“Dio, che fatica riuscire a parlare con te.”
Avrei voluto ribattere con qualche improperio poco femminile, ma non mi lasciava andare, perciò ne uscì solo un incomprensibile mugugnìo.
“Adesso te ne stai buona per un po’ e lasci parlare me, dato che non so quanto tempo ci resti prima che quei maledetti ci trovino. D’accordo?”
Avevo alternative?
Imbronciata, annuii e lui levo la mano dalla mia bocca, permettendomi di respirare nuovamente. Trattenni a malapena l’impulso di inveire contro di lui in lingua madre...
“Bene.”
Si avvicinò ancora di più. Sentivo il sangue ribollire.
“Credimi se ti dico che tutte quelle signorine perfette di cui parlavi e che, secondo te, mi sono state attorno negli ultimi tempi, non so nemmeno chi siano. La maggior parte penso di non averle nemmeno notate.”
“E ti aspetti che ti creda?”
“Hai promesso di lasciarmi finire.”
Mi disse, accorciando ancora di più le distanze tra noi. Lo odiavo quando usava questi mezzucci.
Roteai gli occhi in segno di resa e lo vidi sorridere al mio gesto.
“Ammetto di aver avuto una vita sentimentale piuttosto...alternativa e movimentata in passato...”
Chissà perchè la cosa non mi stupiva, ma tenni fede all’accordo e non proferii parola.
“Tuttavia, da qualche mese a questa parte, mi ritrovo a pensare sempre alla stessa insopportabile ragazzina e la mia vita sentimentale è...morta.”
Probabilmente in quel momento smisi di respirare. Mi aveva trascinata fino lì solo per confessarmi le sue turbe amorose per una tizia che, probabilmente, nemmeno conoscevo?! Dopo quello che gli avevo appena detto, poi?
Già, perchè l’idea che potesse riferirsi alla sottoscritta non mi sfiorava minimamente.
“Bene, adesso mi sono rotta.” Dissi scocciata e mi alzai in piedi. “Scusa, ma non ho intenzione di sorbirmi i problemi sentimentali di nessuno. Se questa ragazza ti piace tanto, va da lei e non perdere tempo con me qui. A questo punto, nemmeno mi interessa sapere perchè mi hai trascinata qui inutilmente.”
Mi spolverai la giacca e feci per scostarmi dal muro, ma Desmond fu più veloce, fulmineo.
Si alzò in piedi e mi bloccò le mani dietro la schiena. Ero in trappola, bloccata tra lui e il muro, come la mia testa aveva appena constatato.
Non potevo muovermi, per di più le sue braccia, impegnate a trattenere i miei polsi, mi cingevano completamente e strettamente, annullando ogni possibile distanza tra noi.
“Che diamine stai facendo?” dissi, con un fil di voce.
L’idea era di urlargli contro, ma la situazione fece si che dalle mie labbra uscisse solo un flebile suono, appena udibile. Era vicino, troppo vicino, la punta del suo naso quasi sfiorava il mio ed il suo respiro arrivava, caldo e avvolgende, fino alle mie labbra.
Stavo cedendo, dannazione.
Una considerevole parte di me se ne sarebbe volentieri fregata di quanto probabilmente stava per dirmi, delle sue spiegazioni e scuse, e avrebbe solamente voluto annullare quell’infima superstite distanza.
Ma il mio autocontrollo ferreo aveva ancora la meglio.
Cercai di liberarmi, ma senza successo.
“Non impari mai. Da me non puoi fuggire...”
“Lasciami, per favore.”

Non avrei retto ancora per molto, in più il dolore della scoperta appena fatta era ancora troppo fresco.
“Tu vuoi sapere perchè non ti ho lasciata indietro?” sussurrò, con un tono di voce così lieve, basso eppure così suadente, che entrambe le mie caviglie minacciarono un crollo strutturale.
Annuii, deglutendo. Avevo la bocca secca.
Vidi Desmond avvicinarsi, portare lentamente il viso accanto al mio, mentre la punta del suo naso percorreva con esasperante tranquillità la via dal mio mento all’orecchio.
Chiusi gli occhi, espirando lentamente, nel vago ed inutile tentativo di non perdere il controllo. Che avessi sbagliato, per una volta?
Le sue parole, sussurrate al mio orecchio, fugarono ogni dubbio...
“Come pensi che avrei potuto continuare la mia esistenza, sapendo che saresti stata nelle loro mani?”
Il mio cuore fece un salto triplo.
“Ho passato gli ultimi mesi a detestare le settimane ed amare i weekend, a correre tutte le mattine al parco sperando d’incontrarti, a tenerti un posto vicino al bancone del bar, solo per poter vedere ogni momento possibile il tuo sguardo assorto mentre ascoltavi la musica...”
Era ufficiale, non stavo respirando.
Sentii le sue mani lasciare i miei polsi, per posarsi delicatamente, ma con fermezza sui miei fianchi. Le mie braccia caddero lungo il corpo, incapaci di sostenersi da sole.
“Ti chiedi ancora perchè non ti abbia lasciato indietro?”
No, decisamente non era più il caso di chiederselo.
Ero felice? Si, eppure non riuscivo a muovermi, se non avessi avuto il solido sostegno del muro, dietro di me, mi sarei potuta accasciare a terra come un palloncino sgonfio.
Il suo viso tornò di fronte al mio.
Scossi la testa, in risposta alla sua domanda. Mi stavo perdendo nei suoi occhi dorati, sempre più vicini...
Sentii il suo corpo aderire al mio, la mia schiena contro il muro, dietro di me, mentre con una mano sollevava delicatamente il mio mento, chiudendo gli occhi. Li chiusi anch’io ed un attimo dopo sentii le sue labbra sfiorare le mie, dapprima esitanti, finchè non annullò le distanze tra noi in un bacio, dolce e atteso per troppo tempo.
Fu come se improvvisamente, mi fossi svegliata da un lungo sonno, persino la stanchezza e la paura della fuga si erano volatilizzate.
Da troppo tempo non provavo quella sensazione, da troppo tempo un ragazzo non mi baciava, prendendomi tra le sue braccia. Quasi non ricordavo più cosa si provasse...
Presa nel vortice di quel momento, gli circondai il collo con le braccia, indugiando sulle sue spalle, forti e atletiche. Incoraggiato dalla mia reazione, Desmond fece scivolare un braccio attorno alla mia vita, attirandomi ancora di più a sè, mentre con una mano mi teneva saldamente la nuca, affondando le dita tra i miei capelli neri. Quel bacio, da dolce divenne intenso, passionale, quasi disperato, come se fosse l’ultimo, mi tolse il respiro, annebbiandomi completamente la mente. Avrebbe potuto fare di me ciò che voleva, in quel momento.
Non seppi dire quanto durò, nè quanto si ripetè...
Ogni qualvolta, senza fiato, le nostre lebbra si separavano, ecco che un semplice sguardo reciproco ci riavvicinava.
Non avevo la minima intenzione di lasciarlo andare e, a giudicare dall’intensità dei suoi baci, nemmeno lui era dell’idea. Persino il pericolo incombente passava in secondo piano.
Quello fu il nostro più grande errore.
In quel momento il mio mondo era completo, perfetto, non necessitava d’altro. C’ero io e c’era Desmond. Basta.
Ma ovviamente la realtà non poteva attendere ancora a lungo prima d’intromettersi.
Un vocio e dei passi sulle scale metalliche dell’edificio ci riportarono sulla terra. Entrambi guardammo nella stessa direzione, poi vidi sul volto di Desmond un’espressione contrita e combattuta che non mi piacque per niente.
“Stanno arrivando.”
Si voltò verso di me, sfilandosi una catenina da collo. Appeso c’era un piccolo ciondolo d’argento dalla forma curiosa, sembrava una specie di triangolo con il fondo curvo e lavorato. Intravidi una minuscola incisione sul retro, forse una frase.
Mi prese le mani e chiuse in esse quell’oggettino, prima di tornara a fissarmi intensamente negli occhi.
“Ascoltami bene, abbiamo poco tempo. Adesso ti nasconderai lì dentro,” iniziò, indicando lo stanzino degli ascensori, proprio dietro di me, “e non ne uscirai per nessuna ragione, sono sicuro che inseguiranno me e nemmeno si ricorderanno della tua presenza.”
Stavo per obiettare, ma mi fermò con un gesto della mano.
“Tu non gli interessi, è me che vogliono. Se dovessi fuggire con me non si farebbero scrupoli ad ucciderti per piegarmi, stanne certa. Non hai idea di che razza di gente sia…”
Il tono freddo e distaccato con cui spiegava la situazione mi dava i brividi. Come poteva essere così calmo in un momento del genere? A meno che…non l’avesse già sperimentato, forse anche più d’una volta.
Mi ritrovai a pensare che in effetti non sapevo nulla della sua vita, prima del giorno in cui ci eravamo conosciuti. Decisi che non me ne fregava proprio niente, io mi fidavo di lui e tanto bastava.
“Dovrò andarmene da questa città, purtroppo e non hai idea di quanto vorrei portarti con me…” era davvero combattuto.
Trattenni a stento una maledetta lacrima che minacciava di rigarmi una guancia. Avevo appena trovato una delle persone più importanti della mia vita, ma già rischiavo di perderla.
“Se entro una settimana non hai miei notizie, cerca qualcuno che porti un simbolo come questo e chiedi protezione. Non vorrei mai mandarti da “loro”, ma saresti comunque più al sicuro che in qualsiasi altro posto. Fino ad allora, non mostrarlo a nessuno, hai capito?”
Annuii.
Ero distrutta. La rabbia bruciante contro il Fato avverso che si stava creando dentro di me avrebbe potuto ridurre in poltiglia tutti i nostri inseguitori, dal primo all’ultimo.
L’unico mio pensiero era: perché?
Lo vidi aprire la porta dello stanzino e farmi segno di entrarvi. I passi sulle scale si avvicinavano.
“Desmond…perché tutto questo?”
Già, per quale motivo stavamo passando quell’inferno? Non aveva senso che si presentassero improvvisamente uomini armati fino ai denti, solo per rapire un semplice barista.
Un sorriso amaro si disegnò sul suo volto.
“Vorrei avere il tempo di spiegartelo…la prossima volta che ci vedremo, lo farò.”
Se ci fossimo rivisti…
Non sapevo perché mi fosse venuto in mente quel pensiero, fu più un fatto istintivo, ma Desmond parve accorgersi della mia preoccupazione inespressa. Mi prese il viso fermamente tra le mani e mi fissò con uno sguardo così sicuro, che le sue parole ebbero il valore di una promessa.
“Cris, noi ci rivedremo, stanne certa.”
Poi mi baciò, così intensamente che dovetti aggrapparmi a lui con tutta me stessa per non venire sopraffatta dal turbine di emozioni che presero a vorticarmi dentro, troppe per un solo essere umano. Sembrava avesse voluto darmi l’ultimo saluto, prima di una lunga separazione…ma quello non era un addio, non lo sarebbe stato. Lo promisi a me stessa.
Poi chiuse la porta ed io rimasi in attesa nel buio, udendo i passi di Desmond correre via, seguiti poco dopo dallo scalpiccio e dalle urla di quei maledetti uomini.
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 26/5/2013, 19:22     +1   -1




Aggiornata dopo due mesi....questa sessione estiva mi sta uccidendo XD
Spero comunque sia venuto fuori qualcosa di buono =D
Come sempre ecco il link di EFP
---> link

SequenceV


Remembrance of a Journey



Presi fiato.
Tornare al campus si era rivelato più difficile del previsto, soprattutto per via della costante paranoia d’esser seguita, ma Desmond aveva avuto ragione. All’università non era rimasto nessuno, anche la berlina scura ed il padre di Catherine erano spariti.
Di me non gliene fregava nulla, erano venuti in forze fin lì solo per lui.
L’angoscia continuava a rodermi dentro. Non avevo idea di che sorte l’avesse colto, se l’avessero catturato o fosse riuscito a fuggire. Nulla.
In più, la prospettiva di dover attendere una settimana intera prima d’avere sue notizie avrebbe potuto uccidermi.
Non dovevo pensarci...ma come potevo?
Mi sentivo dannatamente in colpa, anche se ero consapevole che, dopotutto, non era causa mia se la sorte aveva voluto affibiarmi proprio la figlia di uno di questi Templari, come lui li definiva, come compagna di stanza. Però, se fossi stata più cauta, forse, le cose sarebbero volte in modo diverso...no?
Recriminare non serviva a nulla.
Tastai il ciondolo che Desmond mi aveva lasciato, ora accuratamente occultato sotto la maglia. Averlo, in un certo senso, me lo faceva sentire un po’ più vicino.
Ero distrutta.
La corsa, la paura, ma soprattutto la lacerante sensazione di perdita che provavo, mi stavano sfiancando. Mi sentivo come se mi avessero menomata. I suoi baci, caldi e passionali, ancora bruciavano sulle mie labbra e l’idea di non poterlo rivedere prima di una settimana, nella migliore delle ipotesi, in quel momento era inconcepibile.
Dovevo calmarmi, riordinare i pensieri di quella giornata pazzesca e riprendere il controllo su me stessa. Dare di matto non sarebbe servito a nulla, inoltre, Catherine non doveva assolutamente accorgersi di nulla, men che meno che potessi essere in contatto con Desmond.
Era vitale che lei ne restasse all’oscuro.
Cercando di fare attenzione a non provocare nemmeno il più lieve suono, mi addentrai nella mia stanza. Catherine dormiva della grossa, russando come un ippopotamo con la sinusite, come al solito.
Senza far rumore mi misi il pigiama a mi ficcai sotto le coperte, controllando che la mia compagna fosse ancora nel mondo dei sogni. Fu allora che lo notai.
Proprio dietro al collo, la mia coinquilina aveva tatuata, circondata da rose ed arabeschi davvero graziosi, la stessa croce patente che suo padre portava al petto. Forse a causa dell’abbigliamento invernale, ma non l’avevo mai notata prima.
Sudavo freddo.
Vivevo da mesi col “nemico” e nemmeno me n’ero resa conto.
Chissà quante e quali informazioni aveva passato a quel maledetto, da quando le era parso chiaro che avevo iniziato a frequentare Desmond. Glieli avevo tirati addosso e nemmeno ne ero stata conscia.
Tutti i piccoli pezzi del puzzle iniziavano ad andare a posto...
Inoltre, più la fissavo, più quella croce non mi risultava estranea...come anche quello strano simbolino che ora portavo appeso al collo. Qualcosa in me li conosceva antrambi, li collegava, dando loro una sfumatura che non riuscivo ad identificare. Cominciavo però a pensare che, forse, cercare di capire cosa potessero riportarmi alla mente, avrebbe potuto aiutarmi a controllare meglio la situazione.
Certo, magari erano solo paranoie date dagli eventi e non significavano nulla, tuttavia, cos’altro avevo da fare? Ero comunque bloccata, non potevo aiutare Desmond, nè scappare, nè agire in qualsiasi altro modo senza che Catherine e, per esteso, quel dannato di suo padre lo venissero a sapere.
Sdraiata su un fianco, fissavo insistentemente il delicato tatuaggio della ragazza, sperando che mi portasse alla mente qualcosa di sensato.
Fu così che, con la mente in subbuglio, mi addormentai e feci il primo di una serie di strani sogni che, ancora non ne ero conscia, avrebbero popolato molte delle mie notti future...

***


Onde.
Tutto ciò che vedevo e avvertivo erano le costanti e fastidiose oscillazioni provocate dal mare. Non che soffrissi i viaggi in nave, ma dopo diversi giorni di navigazione, anche il mio stomaco iniziava a protestare. Fortunatamente, senonaltro, ero nutrita meglio di quei rozzi marinai che continuavano a guardarmi con sospetto. Non dovevano essere particolarmente abituati nel vedere una donna con una spada al fianco, ne avevo dedotto.
Stufa del monotono paesaggio che si offriva al mio sguardo, tornai sottocoperta, nella piccola cabina a me riservata.
Il viaggio stava ormai per terminare, almeno a detta del capitano, così decisi di approfittare degli ultimi attimi di pace a me concessi. Slacciai la fibbia della spada e la posai in fondo al letto, assieme all’ampio mantello che vestivo e mi sdraiai sul letto, lasciando che il dondolio della nave mi cullasse.
Lo sciabordio delle onde sullo scafo rilassava mente e corpo, cosicchè sobbalzai quando un marinaio venne a chiamarmi. Senza accorgermene mi ero profondamente addormentata.
“Mia Signora, siamo in vista del porto.” Sentii, oltre l’esile asse che era la porta della cabina.
Mi alzai dal letto, massaggiandomi le tempie. Diamine, avevo dormito troppo.
“Bene.”
Udii i suoi veloci passi risalire in coperta, frettolosamente.
Coi pensieri volti verso ciò che mi aspettava ed il caldo immane che avvolgeva quelle latitudini, rispetto alla mia terra natia, recuperai mantello ed arma, dandomi anche una veloce sistemata ai capelli, acconciati in una stretta treccia che cingeva per intero il mio capo. Ci tenevo a presentarmi al meglio, dopotutto mi era stato dato un incarico di grande fiducia ed il Maestro non era tipo da tollerare fallimenti. Era come un padre per me, mi aveva accolta nell’Ordine, addestrata, iniziata ai suoi segreti. Ma era anche la personalità templare più influente del continente, perciò non era certo mai un bene irritarlo.
Volevo che mi giudicassero degna del mio incarico sotto ogni aspetto. Era molto inusuale che una donna salisse ad un rango come il mio, ed i pettegolezzi e le malelingue non davano tregua in quel senso, ma il Maestro aveva riconosciuto in me il talento e la dedizione necessaria servirlo e l’avrei fatto con onore.
La grande croce patente ricamata sul mio mantello chiaro ne era il segno e la portavo con orgoglio e rispetto.
Salii in coperta, recandomi verso la prua della nave, per godere della vista della città.
Il porto di Acri si stagliava contro il cielo, con le miriadi di alberi maestri a saettare verso l’alto. Navi di ogni genere lo popolavano, portando merci e uomini in quello che era un crocevia fondamentale in quel tratto di mare. La sua architettura rifletteva il potere europeo che la governava ed i crociati che la difendevano. Alte torri si innalzavano, sovrastate, tra tutte, dalla possente mole della Cattedrale, il tutto costruito nella salda architettura del continente, i grigi mattoni che sporgevano fieramente dai muri, quasi a voler confermare la loro fermezza. Non aveva nulla a che vedere con le altre città della zona, in mano ai seguaci di Salah al-Din.
Ma non era per ammirare l’architettura che ero giunta sin lì.
La nave attraccò al porto, iniziando a scaricare le proprie merci e passeggeri con vivacità, mentre io scesi sulla banchina lignea, cercando con lo sguardo coloro che avrebbero dovuto accogliermi.
Poi li vidi. Facendosi largo tra la folla di marinai e mercanti, due Cavalieri Templari, vestiti della consueta tunica bianca su cui campeggiava una rossa croce, avanzavano verso l’attracco, gli elmi scintillanti al sole, lunghi spadoni al fianco.
Con un lieve sorriso, mi diressi rapidamente verso di loro, abbandonando il vociare della plebe indaffarata.
Appena fui dinanzi a loro, si inchiarono in segno di rispetto e mi fecero cenno di seguirli. Con loro al fianco, sarei giunta alla guarnigione senza intoppi. Da sola, avrei forse potuto correre qualche rischio.
Non mi sentivo comunque sicura e non smisi di guardarmi furtivamente intorno per l’intero tragitto. Tra i mercanti, nei vicoli, persino sui tetti, ovunue controllavo ed osservavo cosa accadeva.
Mi avevano messa in guardia da lui, e non intendevo certo rischiare prematuramente la vita per colpa di quell’eretico.
Le guardie all’ingresso ci lasciarono il passo ed io fui condotta verso gli edifici residenziali della roccaforte, dove mi fu permesso di riprendermi dal viaggio e rinfrescarmi, assistita da una servizievole ancella.
Lasciata sola, nella mia piccola, ma confortevole stanza, riflettevo. L’incremento delle nostre forze il quella zona, da parte delle alte gerarchie, era stato tanto repentino quanto la scomparsa di alcuni dei nostri migliori agenti.
Sapevamo benissimo a chi andava imputata la colpa.
L’antico nemico aveva trovato una mano armata particolarmente abile e dedita al suo compito. L’attacco al suo covo non aveva sortito l’effetto sperato e, anzi, le perdite erano state ingenti e la disfatta bruciante.
Imperdonabile.
Certo, la strategia d’attacco non era stata delle più sagge. Troppo audace, troppo frontale e fiduciosa delle nostre forze. Il nemico era stato ampiamente sottovalutato.
Ma d’altronde, piani sottili e sotterfugi mal albergavano nella mente degli uomini, quanto invece amavano trastullarsi in quella delle dame. Forse la mia presenza lì sarebbe servita anche a questo.
Il mio Signore non mi avrebbe ricevuta che a cena, perciò la mia mente potè vagare a lungo, analizzando, ripensando, congeniando...la situazione era precaria e mi si chiedeva di contribuire ad uscire da quello stallo. In che modo, tuttavia, ancora lo ignoravo.
Tutto ciò che mi era stato ordinato era di recarmi ad Acri e proteggere il Gran Maestro, collaborando con lui ed obbedendo ai suoi ordini. Tuttavia, sembrava che, più che come un sottoposto, fosse intenzionato a trattarmi al suo stesso livello. Mi aveva assegnato delle stanze private, persino un’ancella e quella sera avremmo conversato allo stesso tavolo, da pari.
Mi sembrava un ottimo inizio, tuttavia ero divisa tra la riconoscenza e la diffidenza.
Un lieve bussare alla porta mi riscosse dai miei pensieri.
“Avanti.”
Era la mia ancella.
“Mia Signora, ho avuto ordine di accompagnarvi dal mio padrone. La cena è servita.”
Annuii, sistemandomi il modesto, ma grazioso vestito azzurro che mi era stato gentilmente messo a disposizione. Non era certo paragonabile agli abiti che ero solita indossare ai balli della mia patria, ma era comunque di grande finezza. Apprezzavo particolarmente i ricami argentati sugli orli.
Seguii la giovane attreverso gli angusti spazi della guarnigione, adatti alla sua funzione militare, fino ad una porta in legno lievemente lavorata, attraverso cui fui introdotta nella sala da pranzo.
Un lungo tavolo campeggiava al centro della sala, colmo di ogni bontà ed illuminato da eleganti candelieri, un capo già occupato dall’uomo per cui ero giunta sin lì.
Mi inchinai, in segno di saluto e rispetto.
“Roberto di Sable. È un onore essere al vostro cospetto.”
L’uomo si alzò dal tavolo ricambiando il saluto.
“Maria Thorpe, è un piacere avervi qui quanto lo è lo stupore. Prego, sedete.”
Presi posto al tavolo, immediatamente servita da un cameriere, che si prodigò nel riempire il mio piatto, quanto il mio bicchiere.
“Sono spiacente di non potervi offrire di più, temo dovrete accontentarvi di ciò che una roccaforte militare può offrire.”
“Scoprirete, mio Signore, che vi sono dame molto più a proprio agio nelle piazzeforti che tra i merletti.”
Risposi di rimando.
Era bene che comprendesse subito con che tipo di donna avesse a che fare.
Quest’ultima affermazione dovette divertirlo particolarmente, perchè non riuscì del tutto a trattenere il riso.
Sorrisi, soddisfatta.
“Comincio a comprendere perchè abbiano mandato voi. Ma deliziamoci prima il palato con la cena, una volta terminata converseremo.”
Annuii, sperando che il pasto fosse veloce. Ero impaziente di venire a conoscenza del mio ruolo nella situazione e desideravo venire messa parte dei dettagli quanto prima.
La cena, tuttavia, si rivelò molto piacevole. Il cibo ed il vino erano di buona qualità e Roberto, come desiderava lo chiamassi, senza inutili cerimonie, si dimostrò un interlocutore affabile. Quando i servi rimossero le ultime portate dal tavolo, compresi che era giunta l’ora di conversare di faccende più serie.
“Spero che la cena sia stata di vostro gradimento.”
“Così è stato, vi ringrazio.”
“Ne sono lieto. Ora, tuttavia, è tempo di parlare di questioni meno felici.”

Lo supponevo.
“Pochi giorni fa, Sibrando è stato ucciso al porto.”
“Il Gran Maestro dei Teutonici?”

Non conoscevo quell’uomo se non di fama, ma mi era sempre parso un cavaliere dedito alla causa e fermo nelle sue posizioni, nonchè, così si diceva, un grande guerriero. Se uomini come lui potevano essere annientati in modo così semplice, urgeva un rimedio al più presto.
Portai una mano al mento, assorta.
“E’ stato lui, dico bene?”
“Si, ne siamo certi. I nostri uomini l’hanno inseguito per un considerevole tratto, prima di perdere definitivamente le sue tracce.”
“Si nasconde nell’ombra, come sempre...”

Già, ma le ombre sono le più difficili da catturare.
“Ha ormai eliminato tutti i nostri uomini ad Acri, Damasco, persino Gerusalemme ed ora minaccia la mia stessa vita. Non vi sono altre pedine cui dare scacco eccetto la mia persona, è evidente che mi cercherà...anche se non dovrebbe, maledizione.”
Non capivo e dovette leggerlo nel mio sguardo dubbioso.
“Temo che il nostro alleato all’interno della Confraternita, colui che avrebbe dovuto custodire per noi il manufatto, abbia intrapreso una strada propria e divergente dalla nostra. Perciò, ora che la sua lealtà non è più così certa, non ho la sicurezza che possa impedire che il mio nome finisca sulla lista del suo tramite. Abbiamo già perso molti uomini, sacrificabili e sostituibili, certo, ma comunque fidi alleati e non possiamo agire direttamente contro la nostra spia, finchè il Frutto resta nelle sue mani. La sua potenza gli concede un vantaggio che non possiamo colmare.”
Tutto cominciava ad acquisire un senso. Tuttavia, ancora non comprendevo appieno il senso della mia presenza. Dovevo davvero solo proteggere Roberto dall’Assassino? Sarebbe, forse, bastata una nutrita scorta di Cavalieri allo scopo...
“Perdonate la domanda, forse sfrontata, ma...io in cosa posso servirvi, esattamente, che qualsiasi altro Templare, anche di rango inferiore, non possa compiere?”
Si alzò in piedi, cominciando a misurare la stanza a grandi passi.
“Voi, Maria, siete assunta in fretta ai ranghi tra i più alti del nostro Ordine e questo, ai miei occhi, è indice di una mente arguta e di una fedeltà ferrea. Proprio ciò che mi occorre in quest’ora così rischiosa.”
“Spiegatevi meglio, prego.”
Annuì.
“Come ben saprete, l’esercito crociato si appresta ora a metter campo ad Arsuf, non lontano dallo stanziamento di Salah al-Din. Ho ragione di credere che uno scontro campale sia imminente, Riccardo d’Inghilterra è un uomo d’onore ed un grande combattente, dubito perderà questa occasione.”
“E questo come potrebbe riguardaci?”

Sorrise sornione. Aveva in mente un piano ben congegnato, dunque.
“L’umanità non impara mai da sé stessa, essa va guidata, privata dell’arbitrio perché possa essere realmente libera.”
Certo, quello era ciò che l’Ordine mi aveva sempre insegnato, una legge ferrea che condividevo appieno. Ero cresciuta con quel dogma, non l’avrei mai messo in discussione.
“Ho quindi intenzione” continuò, “di recarmi ad Arsuf e prendere accordi con entrambi gli schieramenti, così da poter creare una pace che ci permetterà di controllare lo sviluppo di queste culture, preservandole dagli errori futuri e dal cancro rappresentato dagli Assassini.”
Un piano eccellente, dovetti ammetterlo, tuttavia c’era un particolare che non era stato preso in considerazione.
“Permettetemi, Roberto, ma temo abbiate dimenticato una questione importante.”
Sperai non si offendesse per la mia sfacciataggine.
“Dite.”
“Perché il vostro piano possa riuscire, è vitale che vi rechiate ad Arsuf quanto prima, se non erro.”
Annuì, compiaciuto nel constatare di aver ricevuto un aiuto efficace ed acuto.
“Tuttavia, in quanto vetta del nostro Ordine, ci si aspetterà la vostra presenza ai funerali di Sibrando, uomo di rango templare piuttosto elevato. Permettetevi di farvi notare che, se come è uso, essi si terranno nei prossimi giorni, anche se si svolgessero ad Acri stessa, del che io dubito, voi sareste comunque costretto a perdere tempo prezioso, che i due schieramenti potrebbero sfruttare per una battaglia campale, vanificando i vostri propositi.”
Sembrò colpito dal mio ragionamento, ma sperai non avesse ritenuto inopportuno il mio intervento. Dopotutto, stavo conversando col Gran Maestro ed era lui, con la sua massima autorità, ad avere l’ultima parola in ogni campo.
“Sono compiaciuto nel trovare in voi una mente arguta, Maria.”
Chinai il capo, con deferenza, accettando il complimento concessomi.
“Il funerale si terrà fra tre giorni esatti, come supponete giustamente, e sarà nella Città Santa di Gerusalemme. La mia presenza, come avete chiaramente notato, è attesa, tuttavia io non potrò presenziarvi, proprio per i motivi che avete così lucidamente esposto.”
Mi appagava non poco che avesse tenuto conto delle mie parole, ancor più che le avesse approvate, tuttavia la questione non era ancora risolta.
“Mio Signore, nessuno a parte l’Onnipotente ha la facoltà di essere presente in due luoghi contemporaneamente, come contate di attendere i vostri obblighi?”
“Semplicemente, inviando altri al funerale, al posto mio.”
Cosa? Intendeva travestire uno dei soldati e mandarlo al suo posto? Un piano arguto, dovevo ammetterlo, tuttavia…
“Voi presenzierete al funerale del compianto Sibrando in mia vece. Vi accompagnerà la mia guardia personale, per non destare sospetti, e riceverete una delle mie armature. Con l’elmo indosso nessuno vi riconoscerà e non occorre che parliate. Inoltre, sono pochi quelli che mi hanno incontrato personalmente più di una volta, tra coloro che saranno presenti.”
“Mio Signore, non c’è il rischio che l’Assassino venga a sapere della “vostra” presenza in città?”
“E’ proprio ciò che voglio. Perdonatemi fin d’ora se vi uso brutalmente come esca, ma se l’Assassino si concentrerà su di voi, credendovi me, io potrò agire indisturbato, ben lungi dalla sua lama.”
“Che sarà invece ben vicina alla mia gola!”

Non era mia intenzione alzare la voce, ma non avevo compiuto un viaggio simile unicamente per essere immolata al posto del Gran Maestro. Certo, dare la vita per il nostro sommo capo era un onore, ma non ero incline ad accettare quel bieco inganno. Avrebbero dovuto porre le carte in tavola fin da subito, maledizione!
“Non offendetevi, Maria, non ho scelto voi senza un motivo.”
Sperai che ne avesse uno, e che fosse valido. Lentamente mi alzai in piedi, incrociando le braccia sul petto, infastidita.
“Mi è stato detto che siete una delle migliori spade dell’Ordine, malgrado siate una donna. Dicono il vero le voci?”
“Sono particolarmente avvezza all’arte della spada, mio Signore, si.”

Ero un’abile spadaccina, lo dovevo ammettere, ma la vanità era un’arte che non avevo mai praticato, perciò risposi in modo vago. Le voci, in ogni caso, ben parlavano al posto mio.
“Proprio per questo ho scelto voi. Esigo che, nel momento in cui l’Assassino vi troverà, non fuggiate…”
“Mio Signore, ma…!”

Alzò una mano, zittendomi all’istante.
Non avevo il potere né il diritto di contrastare il suo volere, nemmeno se mi avesse ordinato di trafiggermi, lì e in quel momento. Potevo solo obbedire.
“…ma facciate tutto ciò che è in vostro potere per eliminarlo definitivamente. In breve, desiderò che lo uccidiate.”
Rimasi basita. Era un incarico difficoltoso, avrei rischiato certamente la vita, ma l’onore di contribuire alla causa templare eliminando quel parassita nocivo valeva bene quel rischio. Ora che avevo un preciso obiettivo, avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per portarlo a termine.
“Come desiderate.” Risposi, inchinandomi.
“Molto bene, sapevo di poter contare su di un valido alleato. Domattina partirete per Gerusalemme con una delle mie guardie personali, il resto della guardia vi attenderà nella mia abitazione di Gerusalemme.”
Si avvicinò, posandomi una mano su una spalla, come se si stesse rivolgendo ad un vecchio commilitone. Era un trattamento d’uguaglianza che mi onorava, ma che non riuscì del tutto a farmi dimenticare che, forse, mi stava mandando tranquillamente verso la morte.
“Siate cauta.”
Annuii, per poi inchinarmi e uscire dalla stanza, diretta alla mia camera.
Mentre la mia ancella pettinava con cura i miei lunghi capelli neri, non potei fare a meno di pensare che, molto probabilmente, stavo vivendo gli ultimi tumultuosi giorni della mia esistenza…
 
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\\ Kanda //
view post Posted on 15/6/2013, 18:12     +1   -1




Eccomi! =D
Sono uscita in libertà vigilata, i manuali universitari mi tengono ancora sotto assedio, ma sono riuscita a finire almeno un capitoletto ^^"
Come al solito...spero piaccia =D
Link EFP --->
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Sequence VI

Remembrance of First Sight


Un’alba calda e rosata salutò la mia uscita dalle porte di Acri, mentre il cavallo bianco che montavo prendeva stancamente la via che mi avrebbe portato nel cuore della strada per la Citta Santa.
Willibald, uno dei membri della Guardia del Gran Maestro, mi precedeva, aprendo la strada.
Oltre a noi due, nessun altro ci accompagnava. Il resto della Guardia era partita la sera precedente, mentre la maggior parte già si trovava a Gerusalemme da pochi giorni. Cominciavo a pensare che Roberto avesse avuto in mente un piano ben preciso molto prima del nostro incontro.
Tutto era predisposto con fin troppa cura ed io non mi ero mai sentita una misera pedina quanto in quel momento.
Mai avevo messo in dubbio il mio ruolo o le mie convinzioni, eppure questa missione quasi suicida le stava minando nel profondo. Come potevo avere piena fiducia nell’Ordine, se persino la sua vetta si sentiva in diritto di sacrificare senza alcun ripensamento i suoi sottoposti, coloro che la sostengono? Roberto, era pur vero, aveva mostrato una completa fiducia nella mia riuscita, ma avevo la crescente sensazione che, se anche fossi perita, non si sarebbe dato più peso di quanto non avesse fatto per la precoce morte di Sibrando.
Non dovevo sperare nell’aiuto di nessuno e nemmeno potevo pensare di fuggire, poichè Roberto me l’aveva espressamente vietato. Avrebbe potuto considerarlo finanche tradimento, forse.
Turbata da questi pensieri fin nel profondo del mio animo, mandai il mio destriero al trotto, seguendo la mia scorta da vicino.
Eccetto quanlche scarno manipolo di guardie, per lo più all’incrocio delle strade maestre, ed i contadini e artigiani che abitavano i miseri paesini dell’interno, non v’era anima viva. I sentieri che si inerpicanano nelle valli erano deserti, come pure i profondi canaloni scavati dalle intemperie e da qualche antico e defunto corso d’acqua.
Eravamo soli.
Non potevamo contare nemmeno sulle diverse torri di guardia sparse sul territorio. I cadaveri scomposti dei loro occupanti, abbandonati nella polvere, rendevano chiaro da chi ormai fossero controllate.
Assassini.
Avremmo dovuto evitarle, per quanto possibile, ma questo, naturalmente, non avrebbe fatto altro che rendere il viaggio tortuoso e molto più lungo del previsto.
Sentivo costantemente sulla pelle la sensazione d’essere seguita in ogni passo e pregai che fosse solamente la mia autosuggestione.
Quando il sole fu alto nel cielo, Willibald imboccò uno stretto sentiero, chiuso fra le rocce, deviando nuovamente dalla strada principale.
“Mia Signora, poco più avanti si trova uno specchio d’acqua. Potete concedervi una pausa, se vi aggrada, resterò di guardia.”
Dovetti ammettere che ero piuttosto spossata. Il caldo torrido di quelle latitudini, unito alla cavalcata e alla mancanza d’ombra, aveva affaticato il mio corpo. E non potevo permettermi un passo falso a causa della stanchezza.
Annuii, mentre il templare mi conduceva verso la sorgente.
Appena vi giungemmo, scendemmo da cavallo ed io mi diressi verso lo specchio d’acqua, mentre la mia guida andò a pattugliare l’ingresso del sentiero.
Tolsi il pesante mantello, poggiandolo al mio fianco e mi inginocchiai sulla riva del modesto laghetto, immergendovi le mani.
L’acqua era fresca e limpida, proprio ciò di cui avevo bisogno.
Mi rinfrescai il volto e il collo, prendendomi tutto il tempo necessario. Quel clima era insopportabile.
Poi mi irrigidii.
Mi era parso di sentire un grido soffocato, seguito da un tonfo sordo. Probabilmente era solamente la brezza che scuoteva gli arbusti e i rami, o qualche volatile dal verso particolarmente acuto.
Nonostante cercassi di convincermene, la sensazione di paura che attanagliava la bocca del mio stomaco non accennava ad abbandonarmi.
Inoltre, Willibald era lontano da troppo tempo. Sarebbe già dovuto tornare, per proseguire il cammino.
Non poteva essere...
Cautamente, estrassi la spada e mi incamminai verso lo sbocco del sentiero, rasentando il muro. I battiti del mio cuore erano frenetici, quasi udibili.
Cercando di evitare ogni rumore, un passo dopo l’altro, mi avvicinai all’imbocco della stradina, nascondendomi dietro la curva che essa creava, prima di dare sulla via maestra.
Diventai un tutt’uno con la parete rocciosa, poi, con estrema cautela ed una dose di sana paura, mi affaccia un poco, già sospettando in parte chi mi sarei trovata ad osservare.
Le mie attese furono, purtroppo, confermate.
La mia guardia del corpo giaceva esanime, il sangue che dalla sua gola era andato a macchiare il terreno arido, la spada ancora in pugno.
Se non altro, era riuscito a conservare l’onore di una morte da combattente.
Per di più, notai, era riuscito a ferire Lui.
A pochi passi dal cadavere, l’Assassino giaceva inginocchiato a terra, premendosi un fianco, in cui una ferita andava macchiando di cremisi la veste candida che lo contraddistingueva.
Quale ironia un abito con un così puro colore, per colui che si era macchiato di tante e tali uccisioni.
Era riprovevole.
Strinsi con più forza l’elsa della mia spada, fin quasi a far sbiancare le nocche.
Sudavo freddo.
Quell’uomo era riuscito ad uccidere una delle spade più esperte dell’Ordine, benchè ferito, nulla gli avrebbe impedito di fare lo stesso con me. Inoltre, per quanto allenata, restavo pur sempre una donna.
In quanto a forza fisica non avrei potuto compensare il divario tra me e quell’uomo, addestrato ad uccidere fin da quando era stato in grado di reggere un’arma.
Io non avevo mai tolto la vita a nessuno.
Il mio svantaggio si insinuava in me, come una condanna a morte, una consapevolezza vivida, lidea d’essere in trappola...
Eppure, ora Lui era lì, ferito ed inerme.
Era l’occasione giusta per porre fine alla questione, ancor prima che la situazione proposta dal Maestro ponesse a certo rischio la mia vita.
Avrei potuto ucciderlo ora...
A fatica, si rialzò, appoggiando la parete alla roccia alle sue spalle, nel tentativo di rimanere ritto in piedi, ma senza lasciare il fianco leso.
Non riuscivo a vederlo in volto a causa del cappuccio, ma scorgevo chiaramente la sua bocca contratta in un’espressione di dolore.
Era il momento...
Tesi i muscoli, pronta a balzare dal mio rifugio, cogliendolo di sopresa. Era l’unico modo per poter uccidere un Assassino.
Sperai che non si accorgesse della mia presenza fin quando non fosse stato troppo tardi...
Ma non riuscii nel mio proposito.
Fu il suo sguardo ad impedirmelo.
Nel momento in cui avevo raccolto il coraggio necessario per compiere il mio dovere, si era liberato momentaneamente del cappuccio che gli oscurava il volto, forse per trovare un po’ di respiro e alleviave la sua pena.
Avevo sempre considerato gli Assassini come bestie prive di valori, un branco di predatori incapaci di ogni sentimento...eppure il volto che mi trovavo di fronte era...umano.
Non trovai modo migliore per esprimerlo.
Il suo sguardo era espressivo, severo e contratto dal dolore per la ferita, ma vi leggevo anche una miriade di altri sentimenti.
Angoscia, determinazione....dubbio.
Fissava il corpo esanime di fronte a lui come se non fosse sicuro d’aver fatto la cosa giusta, come se ucciderlo fosse stato un errore.
Era un Assassino, sarebbe dovuto essere naturale come un respiro,per uno come lui, togliere la vita al prossimo.
Eppure l’uomo che mi stava di fronte era combattuto, glielo potevo leggere negli occhi, nutriva dubbi sul suo operato, era insicuro.
Non riuscii a ucciderlo.
Di fronte a me vedevo un uomo, non un Assassino.
Non ero un omicida...non avrei mai potuto ucciderlo a sangue freddo, ora che ne avevo osservato il volto...
Quell’espressione sofferente e combattuta, eppure così determinata, avrebbe continuato a vorticarmi davanti agli occhi.
Silenziosamente, strisciai indietro, verso lo specchio d’acqua, rinfoderando la spada. Recuperato il mantello, mi calai il cappuccio sul volto e salii a cavallo, spronandolo ad un galoppo sfrenato verso l’uscita opposta della gola. Ora si sarebbe di certo accorto che il Templare non era solo, ma quando avesse raggiunto la sorgente, io sarei stata ormai già molto lontana.
Digrignavo i denti, con rabbia. Un giorno, ne ero certa, mi sarei pentita di questa debolezza.

***


La sveglia sul mio comodino mi fece letteralmente balzare in piedi.
Spaesata, mi guardai intorno, spegnendo l’insolente apparecchio.
Era la mia solita stanza.
Accanto a me, il letto dove russava la solita Catherine.
Eppure, quel sogno era stato così vivido e reale, che per un secondo fui convinta di svegliarmi in una profonda gole tra le montagne palestinesi.
Non era normale...
O meglio, quello non sembrava affatto un sogno.
Mi aveva lasciato impressioni contraddittorie, ma mi sentivo quasi come se avessi rivissuto un ricordo. Era la stessa sensazione che vivevo quando cercavo di riportare alla mente episodi della mia infanzia.
No, non era possibile.
Dovevo essermi lasciata suggestionare dagli avvenimenti del giorno prima.
Solo il giorno prima...sembrava fosse passato un secolo.
Mentre svolgevo la mia routine mattutina, infischiandomene dei rumori che avrebbero potuto svegliare quella serpe, cercai di convincere il mio Io che, per quanto realistico, si era trattato solamente di un sogno.
Il fatto che quel tipo incappucciato che mi ero immaginata somigliasse in modo inquietante a Desmond, doveva esserne la prova.
Altri dettagli però non quadravano.
Per sognare qualcosa era necessario averla conosciuta, almeno una volta, perchè essa si depositasse negli angoli più reconditi del nostro inconscio, per poi apparire quando la nostra mente non teneva le redini della situazione, nel sonno.
Solo che questi Assassini, io non avevo la più pallida idea di chi fossero.
Per di più, avevo vissuto la vicenda in prima persona, non certo da spettatrice. Non avevo idea di chi fosse quella Maria, ma, nel breve spazio di quel sogno, sembrava quasi fossi assimilata a lei...ero io Maria, diamine.
Avevo sentito le sue emozioni, la sua paura...per un attimo avevo davvero voluto uccidere quell’uomo,con tutta me stessa. Ma questo non aveva senso se quell’Assassino somigliava così tanto a Desmond.
Io non avrei mai voluto nè potuto uccidere Desmond!
Non potevano essere ricordi o sensazioni del mio inconscio, era impossibile!
Perchè mai, inoltre, avrei dovuto impersonare una Templare? La croce che Maria, quindi io, portava sul mantello era identica a quella del padre di Catherine e a quella che quest’ultima aveva tatuata sul collo, in più pareva che quella donna medievale fosse anche un pezzo grosso in quell’ambiente.
Che motivo avevo di immaginarmi in quei termini?
Io detestavo quella gente! Chiunque fossero, avevano costratto Desmond a fuggire...lo volevano morto!
Ero confusa e, non lo negai, quasi spaventata.
Quella notte non era stata di alcun aiuto nel chiarirmi le idee, anzi, non aveva fatto altro che confonderle ancor di più.
Uscii dalla stanza, sperando che un cornetto alla marmellata, prima delle lezioni, mi avrebbe aiutato a ragionare meglio.
Era ancora presto e la mensa era pressoche vuota, così riuscii ad appropriarmi di uno dei pochi e ambiti tavoli affianco ad una delle grandi finestre che davano sul cortile.
Più passava il tempo, più i ricordi di quel sogno diventavano vividi, anzichè tornare nell’oblio, come sarebbe dovuta essere la norma.
Nomi e luoghi cominciarono a vorticarmi in testa, per di più, ricordai, quella mattina dovevo seguire la lezione sull’archeologia del Vicino Oriente antico e medievale...il che non mi avrebbe certo aiutato.
Stancamente, mi diressi verso l’aula, sperando che fosse già accessibile.
Fortunatamente la porta era aperta e molti studenti avevano già preso posto. Salii qualche gradino e mi sistemai comodamente in terza fila, estraendo dal borsone un quaderno e una penna. Non che avessi molta voglia di prendere appunti quel giorno, comunque...
Immersa nei miei pensieri, attesi l’arrivo dell’insegnante, rigirandomi tra le mani il ciondolo che Desmond mi aveva lasciato prima di fuggire. Più lo osservavo, più la sensazione di familiarità si accresceva.
Dove…dove l’avevo visto?
Dovevo essere pazza, o forse stavo solo dormendo troppo poco. Rimisi il ciondolo al sicuro, sotto la maglia. Scossi la testa.
No, decisamente non potevo conoscere quel simbolo.
L’auto convincimento stava prendendo una parte un po’ troppo consistente nella mia vita.
Fortunatamente qualcuno entrò nell’aula, riportando la mia mente alla più tranquilla routine quotidiana.
Il professor Allath era un individuo altero, ma con un volto bonario che sembrava essere immune ai segni del tempo. Da giovane si era trasferito negli Stati Uniti dalla Siria, sua patria, per sostenere i propri studi, laureandosi in antichità vicino-orientali, come la sua provenienza gli aveva suggerito. Era uno dei massimi esperti nel campo e le sue lezioni, benché altamente tecniche e quindi, estremamente complesse per la sottoscritta, erano forse tra le più interessanti del corso che seguivo.
Quel giorno, tuttavia, non era solo. Un giovane occhialuto dai capelli chiari lo accompagnava, portando un’immane pila di fogli con sé. Temetti che potesse crollare sotto il loro peso. Ci venne presentato come dottor Hastings, uno studioso inglese d’arte, il quale, essendo in visita presso la nostra biblioteca, aveva gentilmente acconsentito, sotto invito del docente, ad erudirci con una lezione incentrata sull’architettura dell’antica provincia romana di Giudea.
Grandioso.
Qualche entità superiore quel giorno si era svegliata con la decisa intenzione di privarmi della mia sanità mentale.
Tra tanti argomenti…
Nonostante il mio essere prevenuta, la lezione si rivelò interessante e priva di “controindicazioni” per la sottoscritta, anche se le spiegazioni di quel tipo erano pedanti e soporifere fino allo sfinimento. La prima impressione che mi lasciò fu d’essere abbastanza pieno di sé, quasi compiaciuto della sua saccenza.
“Ora vorrei prestaste attenzione a queste architetture.” Continuò, scorrendo le diapositive, “Questa no…nemmeno…ecco.”
Quando infine trovò quanto stesse cercando, quasi mi venne un accidente.
D’accordo, l’immagine era quella di un edificio in rovina, la massima parte dell’alzato era crollato e fatiscente, ma avrei potuto riconoscere ovunque quelle strutture.
Le torri.
Le stesse dannate torri che io…che Maria aveva disperatamente cercato di evitare, proprio lì, nel territorio intorno a Gerusalemme. I battiti del mio cuore volavano.
Come era possibile che avessi sognato luoghi reali, che mai avevo avuto occasione di osservare, prima d’oggi e per di più con un così esatto ricordo di ogni particolare? Le aperture, le porte…persino le modanature delle pareti erano perfettamente identiche.
Non era normale…
“All’interno di questi edifici, che in antichità dovevano certamente raggiungere l’altezza di diversi piani, gli archeologi hanno rinvenuto un cospicuo numero di cadaveri ammassati e scomposti, tuttavia con ancora indosso la propria panoplia militare. Naturalmente ignoriamo il motivo per cui questi uomini siano stati sepolti qui, ma gli studiosi sono concordi nel ritenere che queste particolari torri fossero fornite, nelle porzioni più elevate, di loculi, in una sorta di grande sepolcro militare, per soldati semplici, il quale, crollando, ha fatto in modo che noi trovassimo i corpi ammassati al piano terra.”
Altre immagini degli scavi iniziarono ad essere presentate, ma la mia mente era altrove.
Non erano tombe.
Quelli non erano crollati, erano rimasti nel luogo in cui Lui li aveva uccisi.
Mi rendevo conto che stavo cominciando a considerare quel sogno come qualcosa di troppo reale. Non era altro che la mia immaginazione, no?
Forse no…
Ma per quale motivo avrei dovuto ricordare eventi di cui non avevo fatto parte? Dannazione, si parlava di almeno mille anni prima! Che centravo io?!
Dovevo saperne di più, subito, scoprire se anche i personaggi coinvolti in quella bizzarra nottata fossero realmente esistiti o se stessi effettivamente volando verso i limiti della pazzia.
 
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