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Destiny, Assassin's Creed fan-fiction

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\\ Kanda //
TOPIC_ICON8  view post Posted on 19/2/2013, 19:14 by: \\ Kanda //     +1   -1




Questa storia è nata di getto due giorni fa. Ero in biblioteca, in università, non avevo nulla da fare e dovevo impiegare in qualche modo sei ore...non so perchè mi sia venuta in mente una cosa del genere, fatto sta che mi sono messa a scriverla.
Ammetto di essere partita con l'idea di scrivere una veloce one-shot, ma, come chi mi segue sa fin troppo bene, non ho il dono della sintesi, quindi eccomi qui con l'ennesima long...ogni tanto mi chiedo se riuscirò mai a finirla tutte...devo!!
Dunque, io ho cominciato a conoscere e giocare ad Assassin's Creed solo a novembre (mannaggia a me), per colpa/merito di un'amica che me l'ha voluto a tutti i costi prestare. Al momento sono solo alla sequenza 5 di Assassin's Creed II perciò, sebbene la trama generale ed i personaggi di base siano quelli della saga, questa storia probabilmente c'entrerà poco con quella originale, ma spero vorrete comunque leggere questo frutto della mia fantasia malata XD Diciamo che è liberamente ispirata ad AC.
L'inizio sarà piuttosto rilassato, ma conto molto presto di entrare nel vivo dell'azione ed onorare questa splendida saga ^_^
Se poi avrete voglia di recensire anche su EFP mi farà piacere, nel caso questo è il link...
Bene, non voglio annoiarvi ancor prima di aver letto, quindi, buona lettura!!!


- Destiny -


Sequence I

Routine



Mi ero trasferita ormai da diversi mesi, i caldi colori dell’autunno avevano lasciato posto al grigiume invernale ed alla sua neve, per poi tramutarsi nei soavi profumi della primavera. Più di sei mesi erano trascorsi da che ero giunta nella grande città, ma ancora faticavo ad ambientarmi.
Avevo lasciato l’Italia, il mio paese d’origine, per raggiungere quella grande metropoli americana, o meglio, la sua prestigiosa università di orientalistica, una tappa quasi obbligata per intraprendere la carriera da me scelta. Un intero oceano mi separava dalla mia famiglia e dai miei amici e non negavo di sentire parecchio la loro mancanza a volte, tra le pareti della mia stanza.
Non avevo avuto, inoltre, molta fortuna nel trasferimento. L’intero campus universitario era progettato in modo che gli studenti non sentissero il bisogno di uscirne, perfettamente attrezzato per ogni evenienza: librerie, biblioteche, bar, ristoranti, cartolerie, persino un piccolo ambulatorio medico per le prime necessità. C’era tutto. Anche gli alloggi, uno dei principali motivi del mio disagio.
Le camere erano doppie, senza eccezioni e malgrado avessi sperato con tutto il cuore di trovare una compagna di stanza simpatica e socievole, che mi aiutasse a superare il distacco da casa, mi ero dovuto amaramente ricredere.
Catherine era la classica ragazza viziata e spocchiosa, abituata ad osservare il mondo dall’alto in basso. Riteneva che chiunque rispetto a lei fosse una nullità, solo per via del lavoro di suo padre che a quanto pareva era uno dei massimi dirigenti di un’importante multinazionale, attiva in moltissimi campi commerciali e non. Mi pareva si chiamasse Abstergo, o qualcosa di simile…dovevo aver letto qualche cartellone pubblicitario in proposito. Il fatto poi che io fossi lì grazie ad una borsa di studio, mentre lei pagava l’intera retta, credo mi rendesse ancora più insopportabile ai suoi occhi. Probabilmente mi riteneva una sorta di infimo parassita succhia soldi…
Passavamo la maggior parte del tempo ad ignorarci deliberatamente, ben consapevoli di non riuscire a sopportarci a vicenda. Inoltre, credo le desse parecchio fastidio il fatto di non riuscire a rendermi la vita impossibile quanto sperava. Diverse volte aveva tentato di attentare alla mia tranquillità, nel sonno o con scherzi idioti al mio rientro in camera, ma, sfortunatamente per lei, avevo sempre avuto il sonno parecchio leggero ed i miei riflessi non mi avevano mai tradita. Mia madre era solita dire che dormivo con un occhio chiuso ed uno aperto, come mio padre del resto, ed aveva ragione.
Bastava un minimo suono perché mi svegliassi e saltassi sul letto. Catherine era riuscita a beccarsi un sonoro diretto sul mento in questo modo…accidentale, s’intende.
Quindi, per evitare di dover sopportare la sua presenza, passavo il mio tempo divisa tra lo studio in biblioteca e la miriade di attività sportive disponibili nel campus. Non ero iscritta a nessuna squadra e nemmeno ne sentivo il bisogno, malgrado qualche allenatore me l’avesse proposto, tutto ciò di cui avevo necessitavo era muovermi e sfogarmi, in quel modo riuscivo ad evitare di pensare. Di solito sceglievo a caso in cosa avrei profuso le mie energie, senza alcuna pianificazione, anche se prediligevo alcune tra le attività meno comuni. Passavo dalla pallacanestro alle arti marziali, dal kendo all’hockey su prato, c’era persino una parete per arrampicate, anche se dovevo ammettere che le poche volte che l’avevo provata mi erano bastate. Cadere da quattro metri non è un’esperienza piacevole…anche se sotto di te c’è un materasso pronto ad attenderti.
Insomma, le mie giornate erano tutte identiche tra loro, in modo decisamente deprimente.
L’unico raggio di sole nella mia grigia settimana era il weekend. Passavo tutto il giorno al parco cittadino, sommersa dai miei libri di studio, con la fedele compagnia del mio blocco da disegno, circondata da famigliole in passeggiata pomeridiana, cani che inseguivano giocosi i propri padroni, gruppi di ragazzi che, come me, si godevano le belle giornate primaverili leggendo un libro o giocando a volley. Studiavo, leggevo, ogni tanto facevo qualche schizzo o venivo invitata a fare due tiri a palla. Pace, ecco cos’era per me il weekend.
Sin dai primi tempi della mia permanenza, l’insostenibile clausura del campus mi aveva oppressa, così avevo subito cercato maniere alternative con cui occupare il mio poco tempo libero. A pranzo e a cena, avevo preso l’abitudine di andare in un piccolo jazz bar, proprio vicino al parco, dall’invitante nome Meeting Corner.
Era un locale contenuto, proprio all’angolo della via principale che dal parco conduceva verso la zona della città occupata dall’immenso campus universitario. L’avevo notato quasi per caso qualche mese prima e da allora era divenuto il mio rifugio fisso.
C’erano tre principali motivi che mi spingevano a passare il mio tempo lì. Era lontano dal campus, la cuoca era un puro genio culinario e c’era ottima musica jazz ad ogni ora, talvolta anche dal vivo.
D’accordo. A voler essere totalmente onesta con me stessa i motivi erano quattro.
L’ultimo era il barista, Desmond.
Solitamente tendevo a snobbare il sesso opposto, non perché non mi interessasse, semplicemente poiché le bastonate prese negli anni passati mi avevano fatto passar la voglia di avere a che fare con esseri tanto superficiali ed infimi. Non avevo di certo una considerazione rosea del genere maschile.
Desmond, tuttavia, aveva qualcosa di differente e questo mi faceva imbestialire.
La prima volta che avevo messo piede nel locale, mesi addietro, nemmeno mi ero accorta della sua presenza. Ero ancora piuttosto depressa per la mancanza dei miei cari e la solitudine che pativo all’interno dell’università, perciò, mestamente, con l’aria di chi non vorrebbe altro che un buco profondo in cui scomparire, mi ero seduta su uno degli sgabelli del bancone, ordinando una birra e tirandomi la frangia nera il più possibile sugli occhi, a nascondere il mio sguardo.
Ero stanca, depressa, certa che non sarei riuscita a tirare avanti in quel modo un altro mese, figurarsi due anni! Il mio sguardo mi aveva sempre tradita, era un libro aperto per chiunque avesse voluto prendersi la briga di leggerlo, per questo non lo alzai dal mio mesto riflesso specchiato nel lucido bancone del bar, nemmeno quando la mia birra mi arrivò davanti.
Allungai qualche dollaro e presi il bicchiere, sorseggiando.
“Non vorrai torturare quella birra bevendola in quel modo spero.”
Non mi ero nemmeno accorta che il barista se n’era rimasto lì, davanti a me. Nel suo tono non c’era scherno o seccante ironia, solo una genuina incredulità.
Non aveva tutti i torti, dovevi essere veramente in crisi depressiva per metterti a sorseggiare una birra.
Abbastanza seccata per l’intervento non richiesto alzai gli occhi azzurri verso il giovane.
“Scusa e a te che cavolo cambia, mh?”
Avevo sperato non notasse i miei occhi, rossi e gonfi. Avevo passato l’intera giornata a piangere, nel parco, prima di andar lì quella sera.
Ma il mio sguardo non era in grado di mentire.
Ero già pronta a sorbirmi una delle classiche frecciatine maschili sulle ragazzine sempre preda di pianti, ma non arrivò. Il che mi stupì, dovevo ammetterlo. Gliene fui grata.
“Tu non sei americana, vero?”
“Si sente, eh?” risposi, con un mezzo sorriso.
“Abbastanza. Da dove vieni?” mi chiese, senza smettere di preparare cocktail e pulire bicchieri. Sembrava davvero a suo agio nel suo lavoro.
“Sono italiana, sono qui da poco tempo per seguire l’Università…”
Che diamine mi rendeva così demente da confidare la mia vita ad un perfetto sconosciuto!? Detestavo quel lato del mio carattere…
“Mi piacerebbe visitarla, l’Italia intendo. Tutti quelli che ci sono stati ne parlano come estasiati.”
Immaginavo. Per un americano l’Italia era la Terra Promessa dell’arte e della cultura.
Avevamo continuato a chiacchierare per tutta la sera, come se ci conoscessimo da sempre e non da poche ore. Era un ragazzo educato e simpatico, oltre che molto carino. I capelli scuri si intonavano perfettamente con la sua carnagione ed aveva due splendidi occhi color nocciola ed un sorriso sincero, guastato solo da una vistosa cicatrice che percorreva in verticale il lato destro della bocca. Un giorno gli avrei chiesto come se la fosse procurata, forse.
Chiacchierare con Desmond era piacevole, fin da subito si erano creati un legame ed un intesa molto particolari e non ci volle molto perché diventasse il mio unico amico in quella città di sconosciuti.
L’unica cosa che non riuscivo a spiegarmi era la costante sensazione di deja-vù che mi pervadeva ogniqualvolta l’incontravo. Mi dava l’impressione di averlo conosciuto da sempre, eppure, prima di quei mesi, ero più che certa di non averlo mai visto.
Probabilmente il mio cervello dava i numeri per il troppo studio. Era la spiegazione più sensata.
Ripensando a quei primi mesi da americana, passeggiavo verso il Meeting Corner. Era una bella serata d’aprile e il sole stava lentamente tramontando dietro i grattacieli e gli alti palazzi del centro. Percorrendo passi ormai automatici, svoltai l’angolo ed entrai nel locale.
Quella sera c’era parecchia gente, un’orchestra jazz suonava dal vivo, ma sapevo che Desmond mi avrebbe comunque tenuto da parte uno sgabello al bancone.
Lo salutai con un cenno della mano e lui ricambiò, indicandomi un posto in fondo al piano del bar.
Mi arrampicai sull’alto sgabello e ordinai la solita birra.
Avevo preso l’abitudine d’osservarlo mentre svolgeva il suo lavoro, i suoi movimenti erano sicuri e fluidi, tranquilli, mi piaceva guardarli. Ogni volta che si voltava verso di me, però, stavo ben attenta a spostare lo sguardo altrove, non volendo che pensasse chissà cosa.
Dovevo ammettere però che negli ultimi tempi mi ero accorta che i miei atteggiamenti nei suoi confronti stavano pericolosamente mutando. Desmond mi piaceva, forse troppo, ed ero ormai conscia che la mia considerazione per lui non rientrasse più nei termini di una normale amicizia.
Dannazione.
Comunque, cercavo sempre di non farlo notare, soprattutto perché ero più che sicura di non essere nulla più di una buona amica per lui. Era destino, gli uomini erano nati per farmi soffrire.
Inoltre, mi accorsi, non avevamo mai parlato della rispettiva vita privata, perciò, per quanto ne sapessi, poteva anche avere una ragazza, magari perfetta ed insopportabile come Catherine. Non si sarebbe mai curato di una normale ragazza italiana, in ogni caso.
Bevvi un po’ di birra mentre ascoltavo un noto pezzo jazz. Quella band era davvero brava, avrebbe meritato di più che esibirsi in un bar, ma il mondo dello spettacolo era un’arena in cui solo i gladiatori più spietati sopravvivevano.
Tutti gli avventori erano concentrati sulla musica, così Desmond, senza nulla da fare, stava appoggiato al bancone, con gli occhi persi nel vuoto. Il mio sguardo, ben nascosto dall’enorme boccale di birra che tenevo con entrambe le mani, vagò a lungo su di lui. Era decisamente attraente, con un bel fisico, il tipo di ragazzo che si vorrebbe ci tenesse strette per ore tra le sue braccia.
Senza accorgermene avevo cominciato a fissare un punto imprecisato del soffitto, rimuginando su quel pensiero, mentre un lieve sorriso malinconico mi velava le labbra.
“A cosa pensi di così tanto irrealizzabile?”
Per poco non mi venne un infarto!
Che stupida, dovevo aver avuto un’espressione davvero idiota e, cosa peggiore, mi ero fatta beccare in pieno.
“Cosa ti fa pensare che stessi pensando a qualcosa del genere?” chiesi col mio inglese fortemente accentato, nascondendo nuovamente il mio volto, ormai rosso come un peperone, dietro al bicchiere. Ero davvero una pessima bugiarda.
“Avevi la classica espressione di chi desidera qualcosa, ma è sicuro che non potrà mai ottenerla.”
“E anche se fosse?” risposi acida. Ecco, l’avevo fatto di nuovo. Quando venivo scoperta, il nervosismo e l’irritazione verso me stessa si tramutavano in un attacco diretto a chi mi stava davanti. Ci mancava solo che avessi cominciato a discutere con l’unico nell’intera città che mi aveva trattata decentemente, o meglio, che non mi aveva ignorata.
“Colpita. Sei prevedibile sai?”
“E tu insopportabile.”
“Vero.”
Disse ridendo. “Lo considererò un complimento, signorina.”
Aveva pronunciato l’ultima parola in italiano, con un accento così forte che non potei non ridere. Non riuscivo a rimanere a lungo arrabbiata con lui.
“Un giorno ti dovrò insegnare decentemente l’italiano.” Gli dissi, ridendo.
Dopo quell’attimo di ilarità, però, tornò alla carica ed io nuovamente con la faccia nel bicchiere per non doverlo guardare in faccia. Dannazione, dovevo smetterla di comportarmi come una bambina.
“Allora, me lo dici a cosa stavi pensando?”
“Perché dovrei? Tanto l’hai detto anche tu, no, che era qualcosa di irrealizzabile?”

Accidenti, la birra era quasi finita e tra poco non avrei più potuto nascondermi con essa.
Con la coda dell’occhio lo notai alzare un sopracciglio, come se sapesse benissimo di cosa stessi parlando, del che, naturalmente, dubitavo, poi appoggiò i gomiti sul bancone, proprio di fronte a me ed in quel momento mi trovai a pensare che quel piano era illegalmente troppo piccolo.
Mi costrinsi a fissare gli ultimi sorsi di alcol che scendevano dentro il bicchiere, sperando che se ne andasse, ma non lo fece. Invece, poso la sua mano sulla mia, costringendomi ad abbassare il boccale.
Non andava bene così, per niente!
A quel punto fui costretta a guardarlo negli occhi e rimasi, naturalmente, paralizzata di fronte a quei riflessi dorati che si avvicinavano pericolosamente a me.
Il cuore mi batteva all’impazzata, ma il mio corpo era come paralizzato. Non riuscivo a muovere un muscolo.
Vedevo il suo viso avvicinarsi sempre più al mio, il suo sguardo indecifrabile fissarmi, con una puta di divertimento, poi, quando il suo naso stava quasi per sfiorare il mio, si fermò.
“Chi ti dice che sia irrealizzabile?” mi disse in un sussurro.
Credo di aver smesso di respirare in quell’attimo.
In quel momento qualcuno fece un’ordinazione e Desmond, lentamente scivolò via, con un sorriso divertito sul volto, lasciandomi interdetta e preda di un rossore un po’ troppo diffuso.
Quella sera rientrai al campus molto prima del solito, malgrado fosse sabato e solitamente spendessi quasi metà della nottata al locale. Ero confusa.
Cosa aveva voluto dirmi?
Forse aveva davvero scoperto cosa mi frullava per la testa ultimamente? Una considerevole parte di me lo sperava, ma il mio Io razionale mi metteva in guardia.
Mi ritrovai a pensare che fosse come tutti gli altri, che non stesse facendo altro che prendermi in giro, solo per divertimento. Magari avrebbe finto che gli piacessi per poi buttarmi via quando non gli fossi servita più…
No, Desmond non era quel tipo di persona, in quei mesi di conoscenza avevo potuto comprenderlo. Avrei lasciato scorrere gli eventi, senza ostacolarli, mi sarei comportata come sempre, aspettando che fosse lui a chiarire la situazione.
Magari si era trattato di un momento isolato, uno scherzo innocente, almeno per lui.
Con questo turbinio di pensieri in testa ed il forte russare di Catherine nelle orecchie, mi addormentai.
 
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